Quintiliano (35-96 d. C.) definisce l'ironia come una figura del linguaggio o tropo in cui contrarium quod dicitur intelligendum est, cioè nella quale si deve intendere il contrario di ciò che letteralmente si dice.
Questo senso della parola "ironia" è arrivato fino a noi, sia nel caso
in cui questa figura è usata per prendere urbanamente in giro gli
interlocutori, sia quando è usata per denunciare velatamente
l'incommensurabilità del singolo alla realtà, cioè la sua difficoltà ad
adeguarsi e a ritrovarsi in un mondo che gli è estraneo. Questo è il
caso dell'ironia romantica, come descritta, per esempio, da Kierkegaard (1813-1855),
sebbene
Kierkegaard abbia
una visione
dell'ironia
alquanto
riduttiva
rispetto
agli altri
Romantici,
come spiegato
in questo
capitolo.
Nel greco del V secolo, tuttavia,
il significato primario di "ironia" non era
quello riportato da Quintiliano, ma quello che ritroviamo in bocca al sofista Trasimaco nel I libro della Repubblica
platonica, e cioè "dissimulazione"
o "finzione" finalizzata ad ingannare. Il "fare finta" per gioco o per
scherzo era solo un significato secondario, ed era tipico soltanto di Socrate.
Se
oggi noi intendiamo il
termine
"ironia" al modo di Quintiliano e non a quello di
Trasimaco, è solo in virtù del rovesciamento dovuto alla durevole
impressione che il comportamento di Socrate produsse sui contemporanei e sulla
posterità.
Socrate
ha dunque
prodotto
un vero
e proprio
spostamento
semantico
del termine.
Gregory Vlastos, che si interroga sulla figura di Socrate nel suo libro Socrates. Ironist and Moral Philosopher, Cambridge, Cambridge U.P., 1991 (trad. it di A. Blasina, Socrate, il filosofo dell'ironia complessa,
Scandicci, La Nuova Italia, 1998), chiarisce bene la natura del tutto particolare
dell'ironia
socratica.
Raffaello,
Socrate
e i suoi
discepoli
nella Scuola
di Atene
dalle Stanze
Vaticane (1511)
Egli
ritiene che essa non possa
ridursi a ironia semplice, ed introduce perciò il concetto di ironia
complessa.
Socrate si dice ignorante: infatti non
espone né scrive mai una propria filosofia. Ma, nello stesso tempo, è
persona capace di affrontare la morte in nome della conoscenza.
Se si riducesse l'ironia socratica ad ironia semplice,
dovremmo dire che Socrate fa finta di essere ignorante, ma in realtà è
sapiente. Ma questa affermazione è oltremodo riduttiva e ci fa perdere un aspetto
fondamentale della figura speculativa di Socrate, vale a dire il suo uso
dell'èlenchos (confutazione), che comporta che ogni
discussione cominci con premesse esplicitamente poste, e non con
l'affermazione di una verità data per indiscutibile e nota.
Il
testo che
ci fornisce
un esempio
illuminante
di èlenchos
socratico,
insieme
a tutte
le implicazioni
filosofiche
che esso
comporta,
è
il Gorgia
platonico.
Poiché
però questo
è un
dialogo
in cui già
molte delle
teorie platoniche
fanno il
loro esordio,
sarà
meglio limitarci
ad analizzare
il percorso
argomentativo
‘tipico’
seguito
da Socrate
così
come appare
nei dialoghi
giovanili
di Platone,
che sono
i più
marcatamente
"socratici".
In
primo luogo, il
termine
èlenchos indica
quel genere
di ‘confutazione’
che si attua
con la dimostrazione
della contraddittorietà
della tesi
dell’avversario.
Esistono
due generi
di èlenchos:
quello diretto
e quello
indiretto.
Di solito
l’èlenchos
socratico
è
di carattere
indiretto
e consiste
non nel
dimostrare
l’assurdità
o la contraddittorietà
della tesi
dell’opponente
mediante
una dimostrazione
che diriga
le sue obiezioni
contro la
tesi stessa,
ma piuttosto
nel dimostrare
che, data
l’affermazione
A, A implica
B, B implica
C e D e
che, infine,
C e D stanno
in contraddizione
tra loro
o in contraddizione
con la tesi
di partenza
di cui costituiscono
le implicazioni
logiche.
Quando
Socrate
ingaggia
le sue discussioni
con il suo
opponente
di turno,
fa in modo
che dopo
alcuni convenevoli
introduttivi
l’interlocutore
faccia almeno
un’affermazione
sull’argomento
che a Socrate
interessa
discutere.
Allora il
resto della
discussione
si snoda
con la
fluidità
di un teorema
matematico.
Socrate
pone la
prima domanda
sull’affermazione
del rispondente,
che di solito
assume una
delle due
forme: ‘X
è
Y?’ oppure
‘Cos’è
X?’.
Esempi
del primo
genere possono
essere:
‘La giustizia
è
migliore
dell’ingiustizia?’
(Repubblica);
‘È
giusto fuggire
di prigione?’
(Critone).
Esempi del
secondo
tipo sono
‘Cos’è
la temperanza?’
(Carmide);
‘Cos’è
il coraggio?’
(Lachete).
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