L'interpretazione
in chiave
ironica
o "seria" del
discussissimo
e sconcertante proemio
del Bellum
civile (leggibile
per intero
qui)
è
stata per anni
una vera e propria
vexata quaestio
negli studi
lucanei (la
bibliografia
sull’argomento
è molto
ampia; si vedano
ad esempio G.G.
Biondi, Laudatio
e damnatio di
Nerone: L'aenigma
del proemio
lucaneo,
in Gualandri
- Mazzoli
2003, pp. 265-276.,
G. B. Conte,
Il proemio
della Pharsalia,
“Maia” 18 (1966),
pp. 42-53 ed
Enrica Malcovati,
Zum Prolog
der Pharsalia,
in: Lucan,
hrsg. von W.
Rutz (ed.),
WdF Bd. 235,
Darmstadt, 1970,
pp. 299-308).
Di
recente
(2002) è
apparso
in rete
un
contributo
sull'argomento,
a firma
di Alerino
Palma,
nel contesto
di un saggio
sul Bellum
civile per
molti versi
apprezzabile;
sul proemio
però
la sua posizione
appare oscillante
e un po'
contraddittoria.
Leggiamo le
sue considerazioni:
"L’elogio di
Nerone
La prima parte
dell’elogio (I 33-45), è la più significativa perché contiene la contestata, e
contrastata, oltre che reiterata, affermazione per cui gli orrori della guerra
civile sono meno duri da sopportare se commisurati al “premio” che portano con
sé: l’avvento di Nerone. La seconda parte svolge invece l’elogio vero e proprio
ed appare densa, più di quanto non lo sia la prima, di motivi convenzionali: si
predice a Nerone, esaltato in ogni modo pensabile, quando ascenderà alla reggia
del cielo (regia caeli, ma si
intende, ciò accadrà il più tardi possibile: serus) un destino da dio (anzi, davanti a lui ogni dio si ritirerà:
tibi numine ab omni / cedetur). Ma
Nerone è già un dio (mihi iam numen)
ed è invocato come forza e ispirazione per i carmina romana che Lucano si accinge a dare. Gli auspici rivolti al principe sono occasione anche di una
più ampia aspettativa di pace: assunto Cesare in cielo si chiudano le porte di
Giano e in... vicem gens omnis amet:
i popoli si amino vicendevolmente [16].
Eduardo
Barrón,
Nerone e
Seneca,
1904
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Sulla base
dell’attività poetica di Lucano negli anni tra il 60 e il 63 e supponendo
un’evoluzione politica di Lucano simile a quella di altri intellettuali
contemporanei - e quindi una cesura tra i primi tre libri e i restanti sette -,
si è ipotizzato che la lode di Nerone, benché convenzionale, sia sincera,
probabilmente dettata dalla volontà di compiacere l’imperatore [17].
Numerosi
elementi, esterni e interni, farebbero propendere invece per un’interpretazione
in chiave ironica dell’elogio [18]:
innanzitutto il fatto che l’elogio non fu eliminato nelle successive edizioni
del Bellum civile neppure dopo la damnatio memoriae dell’imperatore, ma
anche la presunta unità ideologica del poema di Lucano [19].
Sarebbe stato tuttavia interessante, per valutare quale spazio occupano
nell’elogio elementi convenzionali, conoscere almeno il contenuto delle lodi di
Nerone che Lucano componeva, contemporaneamente ai primi tre libri del Bellum civile, per le occasioni
letterarie del regime neroniano. Esse sarebbero preziose anche per dare più
profondità al problema del rapporto dell’intellettuale Lucano con il potere che
risulta dall’analisi del proemio, così come di tutta l’opera, molto
contraddittorio, con più ombre che luci.
Per attenersi al
testo, sembra certamente eccessiva l’enfasi con cui gli scelera e
il nefas della guerra civile, puntigliosamente elencati ai
vv. 40-43, sono ricondotti alla buona novella dell’avvento di Nerone, salutato
per ben tre volte come il prezzo (v. 38: mercede)
di tanto sangue, come una via obbligata nel cammino del fato (vv. 33-4: non aliam venturo fata Neroni / invenere
viam), per concludere con l’iperbole dei vv. 44-5 (multum Roma tamen debet civilibus armis, / quod tibi res acta est),
che se presa alla lettera ribalterebbe il significato di tutto il poema in
quanto assegnerebbe un senso, o una giustificazione, alle vicende della guerra
civile, di cui tutto il poema esemplifica la evidente e incontrovertibile
insensatezza e mancanza di possibili giustificazioni [20].
E ciò non nei reliqui septem composti
dopo la rottura con il principe, ma anche, e a maggior ragione, nei primi tre
libri, a cominciare dai versi iniziali del I libro nei quali Lucano annunciava
che avrebbe trattato (canimus) di
guerre più atroci di quelle civili (Bella…
plus quam civilia).
Per non
tralasciare che all’interno dello stesso elogio a Nerone, l’espressione dei vv.
37-8 (scelere ista nefasque / hac mercede
placent) costituisce certamente una forma di preterizione, con un marcato
effetto di contrasto, per introdurre l’impietosa sequenza di sangue, pene e
dolore dei vv. 38-43, un compendio ritmato (Pharsalia…
Munda… Perusina… Mutinaeque… Leucas… sub Aetna) delle fasi della guerra
civile."
Fin
qui mi sembra
che l'analisi
di Palma non
faccia una grinza:
in effetti,
per prendere
alla lettera
questo proemio,
bisognerebbe
supporre in
Lucano una dose
di distrazione
(per non dire
altro) tale
da impedirgli
di rendersi
conto delle
insanabili contraddizioni
ideologiche
che verrebbero
a crearsi nel
suo poema: infatti, se considerassimo
questo proemio
"sincero",
Lucano stesso
fornirebbe una
inoppugnabile
giustificazione
ideologica (in
un certo senso
di tipo
hegeliano) a
tutti gli orrori
della guerra
civile:
questo farebbe
perdere ogni
senso ed ogni
valore a tutto
il poema,
che non fa che
deprecare tali
orrori e gli
effetti anche
a lungo termine
della
guerra civile: e,
come giustamente
nota Palma,
non nei libri
successivi ai
primi tre, ma
anche e soprattutto
nei primi tre,
a cominciare
da questo stesso
proemio.
Ma
purtroppo, dopo
avere svolto
questi efficaci
ragionamenti,
Palma si appiattisce
sulle posizioni
di alcuni critici
che, al di là
di ogni evidenza
e del semplice
buon senso,
si ostinano
a leggere questo
proemio come
una forma di
adulazione "eccessiva"
ma
sincera, una
sorta di
sfoggio di retorica
che "prende
la mano"
al poeta e va
al di là
delle sue intenzioni.
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