Kierkegaard
affronta il
problema dell'ironia
nella sua tesi
di laurea, pubblicata
nel 1841 con
il titolo
Il concetto
di ironia in
costante riferimento
a Socrate.
Si tratta di
un'opera ricca
di riferimenti
al dibattito
letterario e
filosofico,
poiché
l'ironia - a
partire dall'età
del romanticismo
- era diventata
un tema particolarmente
vivo ed aveva
attirato su
di sé
l'attenzione
di autori come
Tieck, Schlegel
e Solger.
È
tuttavia Hegel
l'autore cui
il giovane Kierkegaard
si sente più
vicino: nelle
pagine della
sua tesi di
laurea, il filosofo
danese ha infatti
ben chiara davanti
agli occhi la
riflessione
hegeliana sulla
valenza soggettiva
e negatrice
dell'ironia,
ed una delle
mete cui il
suo lavoro approda
può essere
forse indicata
proprio nell'acquisizione
di una prima
parziale autonomia
del giovane
filosofo dalla
pagina hegeliana.
Il
primo passo
per venire a
capo dell'ironia
è, per
Kierkegaard,
di natura
descrittiva:
occorre infatti
cercare di caratterizzare
questa forma
del comportamento,
indicando quali
sono le differenze
strutturali
che ci permettono
di distinguerla
da altri atteggiamenti
della soggettività.
Osserveremo
allora che,
da un punto
di vista descrittivo,
l'ironia si
rivela come
quella forma
del discorso
"la cui
caratteristica
è di
dire l'opposto
di quello che
si pensa"
(ivi, p. 192).
Søren Kierkegaard
Parlare
significa dare
al pensiero
un'apparenza
sensibile, e
ciò è
quanto dire
che "mentre
parlo, il pensiero,
l'opinione è
l'essenza, la
parola l'apparenza"
(ivi). Nell'atteggiamento
ironico, tuttavia,
la parola cessa
di essere manifestazione
del pensiero:
il fenomeno
non ci conduce
più alla
sostanza che
in esso dovrebbe
farsi visibile,
ma ci vincola
apparentemente
ad un pensiero
che è
per noi del
tutto privo
di verità
e di sostanza.
L'ironia
è dunque
una sorta di
sovversione
del rapporto
tra fenomeno
ed essenza,
ed appartiene
proprio per
questo alla
famiglia dei
fenomeni
"doppi":
nell'ironia
il fenomeno
diviene infatti
un'apparenza
ingannevole
che allude ad
una realtà
che deve essere
tuttavia negata.
L'ironia sembra
essere dunque
una peculiare
forma di ipocrisia:
le cose, tuttavia,
non stanno affatto
così;
osserva infatti
Kierkegaard:
L'ipocrisia
pertiene di
fatto all'ambito
della morale.
L'ipocrita si
sforza in continuazione
di sembrare
buono, pur essendo
cattivo. L'ironia,
per contro,
si situa in
un ambito metafisico,
e per l'ironista
si tratta sempre
solo di sembrare
diverso da come
veramente è,
sicché,
come nasconde
il suo scherzo
nella serietà,
e la sua serietà
nello scherzo
[...], così
può anche
venirgli di
passare per
cattivo, pur
essendo buono
(ivi, p. 199).
Del
resto, la
differenza tra
ironia e ipocrisia
traspare
già nel
fatto che l'ipocrita
non vuole che
il suo pensiero
sia colto e
lo dissimula
quindi interamente,
mentre chi fa
dell'ironia
lascia trapelare
nel riso la
sua vera opinione.
L'ipocrita,
dunque, non
dice ciò
che pensa perché
non vuole essere
giudicato: l'ipocrita
dunque nega
se stesso perché
non intende
confrontarsi
con la realtà
che lo circonda,
perché
non se la sente
di contrastare
un'opinione
che gode di
credito nel
mondo. L'ironia
segue una strada
diversa: chi
nel sorriso
ironico riconosce
la distanza
che lo separa
da ciò
che ha detto,
non nega sé,
ma la sua adesione
ad una realtà
che appare per
qualche verso
priva di valore
(ivi, p. 102).
L'ironia, dunque,
permette al
soggetto di
prendere le
distanze da
ciò che
ha detto, liberandosene,
tagliando i
ponti che lo
vincolano ad
una realtà
che è
riconosciuta
priva di valore.
Ora,
proprio in questo
suo far "piazza
pulita"
della molteplicità
dei legami che
stringono l'uomo
alla realtà
che lo circonda,
l'ironia sembra
inaugurare un
nuovo cominciamento
per il soggetto.
La battuta ironica,
che fingendo
di confermarla,
nega l'adesione
del soggetto
ad un mondo
dato, libera
di fatto l'io
da una realtà
cui non crede,
ed è
proprio questo
senso di liberazione
che si esprime
nel riso dell'ironia:
Ma
quanto in tutti
questi casi
ed altri simili
emerge dell'ironia
è la
libertà
soggettiva che
tiene ad ogni
istante in suo
potere la possibilità
di un cominciamento
senza l'intralcio
di legami anteriori.
In ogni cominciamento
c'è qualcosa
di seducente,
poiché
il soggetto
è ancora
libero, e questo
è il
piacere desiderato
dall'ironista
(ivi, p. 196).
La
funzione di
cominciamento
dell'ironia,
il suo porsi
come uno strumento
per mettere
tra parentesi
una realtà
ritenuta inessenziale,
traccia una
chiara linea
di demarcazione
tra l'ironia
e l'ipocrisia,
ma sembra
riconnetterla
al dubbio,
poiché
anche nel dubbio
- come Cartesio
insegna - il
soggetto si
libera dai vincoli
di un sapere
tradizionale
per inaugurare
un nuovo cominciamento.
Il rapporto
tra ironia e
dubbio ha del
resto più
di una ragione
per essere istituito:
anche il dubbio
ci dispone in
un atteggiamento
di natura negativa
rispetto alla
realtà
e ci libera
dalle convinzioni
cui eravamo
precedentemente
legati.
Anche
in questo caso,
tuttavia, sulla
somiglianza
prevale il contrasto:
nel dubbio il
soggetto vuole
penetrare nell'oggetto,
vuole appunto
conoscerlo,
ma l'oggetto
gli sfugge,
proprio perché
il dubbio non
permette mai
alla soggettività
di riposarsi
e di stare ben
salda sulle
sue acquisizioni
conoscitive.
Nell'ironia
invece il soggetto
non vuole affatto
cogliere l'oggetto,
non intende
penetrare nella
sua intima essenza:
intende piuttosto
prenderne le
distanze. In
altri termini:
chi dubita,
crede di non
conoscere la
realtà,
ma è
certo che valga
egualmente la
pena di comprenderla,
ed è
per questo che
cerca di farsi
presso la natura
intima delle
cose; chi fa
dell'ironia,
invece, crede
di conoscere
la realtà,
ma è
certo che non
valga la pena
di soffermarvisi,
e nel sorriso
ironico prende
commiato da
un mondo che
gli appare privo
di valore.
|