2. LA TESI ALCHEMICA
Un'introduzione
perfetta,
quella
di
Baldini,
che
ben
rende
conto
degli
enigmi
che
suscita
il
dipinto
e
della
difficoltà
di
interpretarlo
in
senso
banalizzante,
come
un
comune
memento
mori
o
un
riciclaggio
di
un
episodio
virgiliano:
tutto
in
questo
quadro
è
troppo
strano
per
poter
essere
liquidato
così
superficialmente.
Anzitutto ci
si
chiede
perché,
se
il
Guercino
avesse
voluto
citare
Virgilio,
non
si
sia
attenuto
alla
lettera
delle
Bucoliche,
invece
di
complicare
in
questo
modo
la
vita
a
tutti
i
futuri
interpreti
del
dipinto.
La
sua
non
è
una
citazione,
su
questo
Baldini
ha
ragione:
è
semmai
un'oscura,
remota ed
enigmatica
allusione,
che
non
spiega
niente
e
non
si
spiega
con
niente,
men
che
meno
con
Virgilio.
In
secondo
luogo
si
avverte
qualcosa
di
incongruo
e
inverosimile
in
tutto
il
dipinto:
anche
a
volerlo
intendere
nel
più
letterale
dei
modi,
cioè
come
il
rinvenimento
di
un
teschio
da
parte
di
due
pastori,
ci
si
domanda
che
razza
di
ambientazione
sia
mai
questa:
è innaturale
che i due pastori sbuchino in quel modo,
a
quell'ora,
dalla
massa
informe
(roccia?
Cespuglio?)
che
hanno
di
fronte. Da dove arrivano? Dalla campagna? Dal bosco? Da un pascolo?
Se
è
vero
che
sono
dei
pastori,
dove
sono
i
loro
animali? In
definitiva, c'erano
mille
modi per rappresentarli in modo più naturale
e
verosimile.
E
la
massa scura
che hanno davanti cos'è? Non sembra nulla di vegetale, ma non è nemmeno roccia:
in
verità
non
è
nulla di chiaramente
definibile. Sembra una sostanza stranamente trasparente (s'intravede ciò che sta dietro,
ad
esempio
la
manica
del
pastore
di
destra), come se fosse stata aggiunta
in modo posticcio:
Ma, anche a voler ammettere che sia stata
dipinta in un secondo tempo, è impensabile che un grande pittore come
il Guercino abbia eseguito un lavoro tanto maldestro senza correggerlo in seguito.
Ma
soprattutto, per quale motivo li ha raffigurati così, senza le gambe, come
conficcati dentro quella materia
informe,
come
vediamo
anche
nell'altro
dipinto
del
Guercino
già
citato,
Apollo
che
scuoia
il
satiro
Marsia,
dello
stesso
anno
1618?
E
perché
ha
replicato
in
due
diversi
dipinti
lo
stesso
soggetto?
Come sempre, la cosa è passibile di due opposte interpretazioni,
una
"tranquillizzante"
e
una
meno: 1) il primo dipinto non è che un bozzetto preparatorio del secondo,
o una
variante
di
esso; 2) quei due personaggi sono veramente importanti per l'autore,
probabilmente perché hanno un significato simbolico.
Ma,
per
tornare
al
dipinto
principale,
se
Baldini
ci
ha
egregiamente
introdotti
al
problema,
non
altrettanto
sembra
di
poter
dire
del
prosieguo
del
suo
discorso,
che
condividiamo
solo
in
parte.
Egli
infatti,
dopo
avere
(giustamente,
a
nostro
parere)
rifiutato
Virgilio
come
referente
del
quadro,
chiama
in
campo
Erodoto:
un
autore
di
gran
lunga
meno
noto
nel
Seicento,
e
per
ciò
stesso
meno
probabile
come
punto
di
riferimento
per
un
dipinto
di
quell'epoca.
Ma
seguiamo
il
suo
ragionamento.
Il
brano
di
Erodoto
al
quale
Baldini
allude
è
Storie
I
67-68,
in
cui
si
narra
del
rinvenimento
in
Arcadia
del
sepolcro
di
Oreste.
A
tale
rinvenimento,
dunque,
farebbe
riferimento
la
frase
Et
in
Arcadia
Ego.
Ecco
il
brano:
67. Κατὰ μὲν δὴ
τὸν πρότερον πόλεμον συνεχέως ἀεὶ κακῶς ἀέθλεον πρὸς τοὺς Τεγεήτας, κατὰ δὲ τὸν
κατὰ Κροῖσον χρόνον καὶ τὴν Ἀναξανδρίδεώ τε καὶ Ἀρίστωνος βασιληίην ἐν
Λακεδαίμονι ἤδη οἱ Σπαρτιῆται κατυπέρτεροι τῷ πολέμῳ ἐγεγόνεσαν,
τρόπῳ τοιῷδε γενόμενοι. Ἐπειδὴ αἰεὶ τῷ πολέμῳ ἑσσοῦντο ὑπὸ Τεγεητέων, πέμψαντες
θεοπρόπους ἐς Δελφοὺς ἐπειρώτων τίνα ἂν θεῶν ἱλασάμενοι κατύπερθε τῷ πολέμῳ
Τεγεητέων γενοίατο. Ἡ δὲ Πυθίη σφι ἔχρησε τὰ Ὀρέστεω τοῦ Ἀγαμέμνονος ὀστέα
ἐπαγαγομένους. Ὡς δὲ ἀνευρεῖν οὐκ οἷοί τε ἐγίνοντο τὴν θήκην τοῦ Ὀρέστεω,
ἔπεμπον αὖτις ἐς τὸν θεὸν ἐπειρησομένους τὸν χῶρον ἐν τῷ κέοιτο Ὀρέστης.
Εἰρωτῶσι δὲ ταῦτα τοῖσι θεοπρόποισι λέγει ἡ Πυθίη τάδε· »Ἔστι τις Ἀρκαδίης
Τεγέη λευρῷ ἐνὶ χώρῳ, ἔνθ' ἄνεμοι
πνείουσι δύω κρατερῆς ὑπ' ἀνάγκης, καὶ
τύπος ἀντίτυπος, καὶ πῆμ' ἐπὶ πήματι κεῖται. Ἔνθ' Ἀγαμεμνονίδην κατέχει φυσίζοος αἶα· τὸν σὺ κομισσάμενος Τεγέης ἐπιτάρροθος ἔσσῃ.»
Ὡς δὲ καὶ ταῦτα ἤκουσαν οἱ Λακεδαιμόνιοι, ἀπεῖχον τῆς ἐξευρέσιος οὐδὲν ἔλασσον,
πάντα διζήμενοι, ἐς οὗ δὴ Λίχης τῶν ἀγαθοεργῶν καλεομένων Σπαρτιητέων ἀνεῦρε.
Οἱ δὲ ἀγαθοεργοί εἰσι τῶν ἀστῶν, ἐξιόντες ἐκ τῶν ἱππέων αἰεὶ οἱ πρεσβύτατοι,
πέντε ἔτεος ἑκάστου· τοὺς δεῖ τοῦτον τὸν ἐνιαυτόν, τὸν ἂν ἐξίωσι ἐκ τῶν ἱππέων,
Σπαρτιητέων τῷ κοινῷ διαπεμπομένους μὴ ἐλινύειν ἄλλους ἄλλῃ.
67.
Così
durante la prima guerra sempre
con esito costantemente sfavorevole lottarono contro i Tegeati; invece
al tempo di Creso e del regno a Sparta di Anassandrida e Aristone gli Spartani
erano ormai riusciti vincitori nella guerra, e lo erano riusciti nel modo
seguente: [2] poiché venivano sempre battuti in guerra dai Tegeati,
mandarono messi a Delfi per chiedere quale degli dei propiziandosi sarebbero
riusciti superiori ai tegeati nella guerra. E la Pizia profetò loro
che lo sarebbero riusciti quando avessero ricondotto in patria le ossa
di Oreste figlio di Agamennone. [3] Ma, poiché non furono capaci
di rintracciare la tomba di Oreste, mandavano di nuovo al dio per chiedere
il luogo in cui Oreste giaceva. Ai messi che le rivolgevano questa domanda
così la Pizia risponde: [4] "C'è una Tegea d'Arcadia in luogo
piano, ove due venti spirano sotto una forza possente e c'è colpo
e contraccolpo, e danno su danno. Là la terra datrice di vita tiene
l'Agammennonide; tu portandolo via sarai vincitor di Tegea" [5] Quando
gli Spartani ebbero udito ciò, benché da per tutto cercassero,
pure non erano meno lontani dal trovarlo, finché Lica, uno degli
Spartani detti "benemeriti", lo trovò. I "benemeriti" sono cinque
cittadini, scelti ogni anno, sempre i più anziani, fra i cavalieri;
questi nell'anno in cui sono tratti a sorte fra i cavalieri hanno il dovere
di non stare mai in ozio, e vengono mandati chi qua chi là dallo
stato spartano.
68. Τούτων ὦν τῶν
ἀνδρῶν Λίχης ἀνεῦρε ἐν Τεγέῃ καὶ συντυχίῃ χρησάμενος καὶ σοφίῃ. Ἐούσης γὰρ
τοῦτον τὸν χρόνον ἐπιμιξίης πρὸς τοὺς Τεγεήτας ἐλθὼν ἐς χαλκήιον ἐθηεῖτο σίδηρον
ἐξελαυνόμενον καὶ ἐν θώματι ἦν ὁρέων τὸ ποιεύμενον. Μαθὼν δέ μιν ὁ χαλκεὺς
ἀποθωμάζοντα εἶπε παυσάμενος τοῦ ἔργου· «Ἦ κου ἄν, ὦ ξεῖνε Λάκων, εἴ περ εἶδες
τό περ ἐγώ, κάρτα ἂν ἐθώμαζες, ὅκου νῦν οὕτω τυγχάνεις θῶμα ποιεύμενος τὴν
ἐργασίην τοῦ σιδήρου. Ἐγὼ γὰρ ἐν τῇδε θέλων [ἐν] τῇ αὐλῇ φρέαρ ποιήσασθαι, ὀρύσσων
ἐπέτυχον σορῷ ἑπταπήχεϊ· ὑπὸ δὲ ἀπιστίης μὴ μὲν γενέσθαι μηδαμὰ μέζονας
ἀνθρώπους τῶν νῦν ἄνοιξα αὐτὴν καὶ εἶδον τὸν νεκρὸν μήκεϊ ἴσον ἐόντα τῇ σορῷ. Μετρήσας
δὲ συνέχωσα ὀπίσω.» Ὁ μὲν δή οἱ ἔλεγε τά περ ὀπώπεε, ὁ δὲ ἐννώσας τὰ λεγόμενα
συνεβάλλετο τὸν Ὀρέστην κατὰ τὸ θεοπρόπιον τοῦτον εἶναι, τῇδε συμβαλλόμενος·
τοῦ χαλκέος δύο ὁρέων φύσας τοὺς ἀνέμους εὕρισκε ἐόντας, τὸν δὲ ἄκμονα καὶ τὴν
σφῦραν τόν τε τύπον καὶ τὸν ἀντίτυπον, τὸν δὲ ἐξελαυνόμενον σίδηρον τὸ πῆμα ἐπὶ
πήματι κείμενον, κατὰ τοιόνδε τι εἰκάζων, ὡς ἐπὶ κακῷ ἀνθρώπου σίδηρος
ἀνεύρηται. Συμβαλόμενος δὲ ταῦτα καὶ ἀπελθὼν ἐς Σπάρτην ἔφραζε Λακεδαιμονίοισι πᾶν
τὸ πρῆγμα. Οἱ δὲ ἐκ λόγου πλαστοῦ ἐπενείκαντές οἱ αἰτίην ἐδίωξαν. Ὁ δὲ
ἀπικόμενος ἐς Τεγέην καὶ φράζων τὴν ἑωυτοῦ συμφορὴν πρὸς τὸν χαλκέα ἐμισθοῦτο
παρ' οὐκ ἐκδιδόντος τὴν αὐλήν. Χρόνῳ δὲ ὡς ἀνέγνωσε, ἐνοικίσθη, ἀνορύξας δὲ τὸν
τάφον καὶ τὰ ὀστέα συλλέξας οἴχετο φέρων ἐς Σπάρτην. Καὶ ἀπὸ τούτου τοῦ χρόνου,
ὅκως πειρῴατο ἀλλήλων, πολλῷ κατυπέρτεροι τῷ πολέμῳ ἐγίνοντο οἱ Λακεδαιμόνιοι·
ἤδη δέ σφι καὶ ἡ πολλὴ τῆς Πελοπον- νήσου ἦν κατεστραμμένη.
68.
Lica dunque, uno di questi uomini, aiutato
e dal caso e dalla sua avvedutezza la trovò a Tegea. Essendoci in
quel tempo libertà di scambio con i Tegeati, capitato in una officina
egli osservava la lavorazione del ferro, e stava tutto meravigliato a contemplare
il lavoro. [2] Il fabbro, accortosi della sua meraviglia, gli disse interrompendo
il lavoro: "Certo, o ospite spartano, se tu avessi visto ciò che
io vidi molto ti saresti meravigliato, dal momento che tanto ammiri la
lavorazione del ferro. [3] Ché io, volendo farmi in questo cortile
un pozzo, scavando trovai un'urna di sette cubiti. Non credendo che fossero
mai esistiti uomini più grandi di quelli di oggi la aprii e vidi
il cadavere, che era della stessa lunghezza dell'urna. Dopo averlo misurato
tornai a seppellirla". Questi dunque gli diceva ciò che aveva visto,
e l'altro, avendo riflettuto su tali parole, congetturava che secondo l'Oracolo
quello doveva essere Oreste, da questo arguendolo: [4] vedendo i due mantici
del fabbro trovò che erano i venti, e l'incudine e il martello erano
il colpo e il contraccolpo, e il ferro lavorato il danno aggiunto a danno,
da questo a un dipresso desumendolo, che il ferro è¨ stato inventato
per la rovina degli uomini. [5] Fatte questo congetture se ne tornava a
Sparta e riferiva ai Lacedemoni ogni cosa. Ma essi lo bandirono, accusandolo
di falso. Allora, tornato a Tegea e esposta al fabbro la sua disgrazia,
tentava di prendere in affitto il cortile, mentre quello non voleva darlo.
[6] Come poi col tempo l'ebbe persuaso, andò ad abitarvi e allora,
scavata la tomba e raccolte le ossa, tornava con esse a Sparta e da quel
momento, ogni volta che combatterono fra loro, gli Spartani riuscirono
di gran lunga superiori in guerra."
L'ipotesi,
ripetiamo,
ci
sembra
cervellotica,
soprattutto
per
le
deduzioni
che
subito
dopo
Baldini
ne
trae:
egli
infatti
non
interpreta
l'aneddoto
erodoteo
in
senso
letterale,
ma
come
un'allegoria
dei
"misteri
metallurgici"
connessi
con
la
morte
di
alcuni
eroi
divinizzati
(per
i dettagli
si
veda
ancora
il
suo
saggio),
ai
quali
fa
riferimento
Mircea
Eliade
in
una
sua
celebre
opera
del
1980,
Arti del metallo e alchimia:
"Eliade
- scrive Baldini - ci fa notare non solo che i complessi mitico-rituali legati all'attività
metallurgica implicano 'il sacrificio o l'autosacrificio di un dio' ma
anche che: 'Secondo altre tradizioni, anche un semidio o un Eroe civilizzatore,
messaggero di Dio, può essere all'origine dei lavori minerari e
metallurgici'", che a loro volta costituiscono la base dell'alchimia:
in
questo
caso
l'eroe
sarebbe
ovviamente
Oreste.
Ora,
pur
tenuto
conto
del
fatto
che
l'alchimia
era
nel
Seicento
(il
secolo
di
Guercino
e
Poussin)
un
vero
e
proprio
delirio
di
massa,
come
ci
è
attestato
anche
dalla
passione
di
Newton
per
questa
pseudo-scienza,
la
conclusione
alla
quale
arriva
Baldini
non
ci
convince
pienamente: "Questa 'favola poetica', così trasparente persino ai nostri occhi
(sic!),
doveva esserlo molto di più a quelli di un uomo del Seicento, epoca
in cui magia, astrologia e alchimia erano una componente fissa e abbondante
della dieta culturale."
A
parte
il
fatto
che
sulla
trasparenza
della
"favola"
è
lecito
nutrire
seri
dubbi,
ci
domandiamo
perché
mai
per
un
pittore
del
Seicento
l'episodio
raccontato
da
Erodoto
dovesse
avere
tanta
importanza,
ammesso
e
non
concesso
che
lo
conoscesse
(Baldini
stesso
è
costretto
ad
ammettere
che,
se
pure
lo
conosceva,
lo
leggeva
nella
traduzione
latina
di
Lorenzo
Valla
o
nel
volgarizzamento
di
Matteo
Maria Boiardo):
è
verosimile
pensare
che
il
Guercino
abbia
considerato
l'aneddoto
erodoteo
così
rilevante
da
dedicargli
il
suo
dipinto
più
celebre
ed
enigmatico,
in
un'epoca
in
cui
Erodoto
era
così
poco
noto?
Se
sì,
allora
bisogna
concluderne
che
il
pubblico
al
quale
il
dipinto
era
destinato
era
senz'altro
costituito
da
una
ristrettissima
cerchia
di "iniziati",
in
grado
non
solo
di
leggere
le
Storie
di
Erodoto,
ma
anche
di
decifrare
il
significato
allegorico
della
vicenda
connessa
con
il
rinvenimento
della
tomba
di
Oreste.
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