1. PROBLEMI INTERPRETATIVI
"Il quadro che ci accingiamo a studiare è un olio su tela di cm.
82 x 91, eseguito pare intorno al 1618 dopo una breve visita dell'autore
a Venezia, ed è oggi alla Galleria Nazionale D'Arte Antica di Palazzo
Corsini in Roma. Dopo quasi quattrocento anni dalla composizione del dipinto,
gli storici dell'arte ammettono ancora che né le origini né
il significato del tema Et in Arcadia Ego sono chiari. È
nostra intenzione cercare di risolvere l'enigma."
Così
esordisce
Franco
Baldini
in
un
lungo
ed
interessante
saggio
dedicato
al
celebre
e
discusso
dipinto
del
Guercino,
pubblicato
sulla
rivista
Episteme nel
2001
(il
saggio
è
leggibile
per
intero
qui).
Guercino,
Et in Arcadia Ego,
1618
circa
(clicca
sull'immagine
per
vedere
il
dipinto
ingrandito)
La
storia
di
questo
dipinto
è
piuttosto
travagliata,
a
cominciare
dalla
sua
attribuzione:
infatti
il
quadro,
menzionato
per
la
prima
volta
nella
collezione
di
Antonio
Barberini
nel
1644,
successivamente
acquistato
dagli
Sciarra
Colonna
e
portato
a
Roma
nel
1812,
era all'epoca
attribuito
a
Bartolomeo
Schedoni,
come
ancora
si
legge
su
alcuni
libri;
si
veda
ad
esempio
Chi l'ha detto?
Tesoro di citazioni italiane e straniere
di Giuseppe Fumagalli,
Hoepli
1989,
in
cui,
alla
voce
Et
in
Arcadia
Ego,
si
legge:
"è
scritto
in
un
quadro
del
pittore
modenese
Bartolomeo
Schedoni,
o
Schidone
(1570?-1615).
Il
quadro
[...]
rappresenta
due
giovani
pastori
che
tengono
un
teschio (sic!)
e
lo
guardano
attentamente:
sotto
al
teschio
si
legge
il
motto
citato"
(pag.
667).
Affermazione
alquanto
sconcertante, non
solo
per
l'ostinazione
con
cui
l'autore
continua
ad
attribuire
allo
Schedoni
il
dipinto,
ma
anche
perché
i
due
pastori
ivi
raffigurati
non
tengono
affatto
il
teschio,
che
è
di
fronte
a
loro,
ad
una
certa
distanza.
Sorge
il
dubbio
che
non
si
tratti
neppure
dello
stesso
quadro,
ma
non
risulta
che
ne
esistesse
un
altro
di
soggetto
analogo
ad
opera
dello
Schedoni.
Peraltro
non
sembrerebbero
esservi
dubbi
sulla
paternità
guerciniana
del
quadro,
affermata
una
volta
per
tutte
dal
Voss
nel
1911,
anche
sulla
base
del
confronto
con
il
dipinto
del
Guercino
Apollo
che
scuoia
Marsia
del
1618,
oggi
a
Firenze
a
Palazzo
Pitti,
in
cui
è
presente
sullo
sfondo
lo
stesso
gruppo
di
pastori:
Il
saggio
di
Baldini
prosegue
così:
"In un paesaggio agreste e montuoso, sotto un cielo ancora notturno ma
in cui si comincia a scorgere il chiarore che precede l'alba, due enigmatici
personaggi si affacciano tra gli alberi da dietro una massa rocciosa di
colore nerastro, di fronte alla quale sta un angolo di muratura che sorregge
un grande teschio sulla cui calotta cranica è posato un moscone,
mentre un topo sembra roderne il lato destro della mascella. Su un alberello
sovrastante e biforcuto - il cui ramo superiore è verde mentre l'inferiore
secco - sta un uccellino appollaiato, con il capo ritratto e le penne arruffate:
dunque ancora visibilmente addormentato. D'altra parte anche la stasi del
moscone - insetto che entra in attività solo di giorno - e la presenza
di quell'animale notturno per eccellenza che è il topo, confermano
inequivocabilmente l'ora - antelucana sia pur di poco - in cui abbiamo
situato la scena. Nella parte frontale del pezzo di muratura - invisibile
ai due personaggi dipinti, dunque offerta esclusivamente alla sagacia dello
spettatore - campeggia in maiuscole latine la famosa scritta "Et
in
Arcadia
Ego", sulla quale tanto inchiostro è stato inutilmente versato.
I due personaggi, di cui sono visibili solo i torsi, dimodoché sembrano
quasi emergere direttamente dalla massa rocciosa che sta loro davanti,
appoggiandosi a bastoni di diversa lunghezza scrutano meditabondi il simbolo
per eccellenza della morte corporale: l'uno è più giovane,
imberbe, a capo scoperto e vestito di una tunica bianca mentre l'altro
è più anziano, barbuto, ed ha il capo coperto da un voluminoso
berretto, rosso come la tunica che lo riveste e della quale si scorge in
alcuni punti il risvolto bianco.
Dobbiamo dire - a scanso di equivoci - che siamo ben lungi dal contestare
il significato tradizionalmente attribuito dalla critica accademica alla
composizione: certamente, e nel migliore spirito rinascimentale, i due
personaggi stanno meditando sul mistero della morte, ma voler pretendere
che con ciò si esaurisca il senso del dipinto, e che ciò
sia addirittura confermato dalla misteriosa frase epigrafica, significa
votarne i dettagli - in definitiva, tutta la materia formale che lo costituisce
fisicamente - all'insignificanza più totale. Questo è - secondo
noi - il maggior difetto di un'ermeneutica che, per il continuo timore
di cadere nel discredito, finisce spesso per contentarsi di restituire
soltanto l'evidenza.
Infatti, perché mai Guercino avrebbe esplicitamente conferito
alla sua tela un carattere di enigmaticità così elevato se
avesse voluto esprimervi solamente un'allegoria generica e per ciò
stesso triviale?
Nessuno ignora che una tale operazione lo avrebbe certo
esposto, ai suoi tempi - tempi di erudizione preziosa e aristocratica e
di ingegnosità geroglifica impareggiabile - al ludibrio generale.
Quel che in questo modo si rende al pittore non è davvero un bel
servizio: vuol dire ignorare lo sforzo che deve essergli costata l'inventio
che la Galleria di Palazzo Corsini offre, ormai inutilmente, allo sguardo
superficiale dei visitatori.
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