ET IN ARCADIA EGO

 

 

Altre interpretazioni proposte si discostano invece notevolmente dal significato epigrafico-funerario, e non è qui il caso di riportarle tutte.
Ci limitiamo qui a far notare un particolare: la frase è dipinta in modo strano, così strano da far sorgere una serie di dubbi.

Anzitutto sembra poco sensato averla disposta su due righe, con un "a capo" tra "Arcadia" ed "ego" che non si giustifica in nessun modo: è puerile spiegare questa scelta con la mancanza di spazio: se Poussin si era accorto di non avere abbastanza spazio per dipingerla in quel punto, avrebbe potuto ovviare all'inconveniente in diversi modi: spostando un po' il pastore, allungando leggermente l'arca, o, molto banalmente, rimpicciolendo un po' la scritta. Come se non bastasse, il motto non si legge per intero: la E di "ego" è infatti coperta dalla mano del pastore con la barba.

 

 

Anche volendo evitare di indulgere ad inutili dietrologie, questa serie di stranezze sembrerebbe voler richiamare l'attenzione proprio su quel punto della scritta, in particolare sulla mancanza della E e sulla sillaba GO rimanente.

Senza pretendere di cogliere nel segno, facciamo notare che, leggendo la sillaba iniziale al contrario ed unendola a quella finale visibile, e dividendo la parola Arcadia, si ottiene:

 

TEGO IN ARCA DIA

cioè, in latino, "Proteggo in un'arca divina".
Non ci sembra plausibile che, come alcuni pensano, "Dia" sia da intendere alla greca, come accusativo di Zeus (= "proteggo Dio in un'arca"): non si vede infatti per quale motivo il motto dovrebbe essere bilingue, ed inoltre il riferimento a Zeus mi pare in questo caso forzato e inopportuno, a meno che, per l'appunto, non lo si intenda genericamente come "Dio".
Facciamo notare anche che l'indice del pastore punta proprio la seconda parte della parola, "DIA".
Se così fosse, ci sarebbe da domandarsi: chi protegge chi/cosa? Chi/cosa è l'arca divina?

Citiamo ancora, a titolo di semplice curiosità, la tesi esposta per la prima volta nel best-seller Il santo Graal di Baigent, Leigh e Lincoln, e poi variamente ripresa da molti appassionati di occultismo (è anche la tesi fatta propria da Dan Brown ne Il codice Da Vinci):  i tre studiosi inglesi credono che essa contenga un riferimento al fatto che Gesù Cristo sia sopravvissuto alla crocefissione per morire poi di morte naturale e venir sepolto da qualche parte nel Sud della Francia, nei dintorni di Rennes-le-Château. Questa ipotesi ha scatenato nelle campagne circostanti Rennes-le-Château una caccia al tesoro che ancor oggi è ben lontana dal cessare.

La scritta è stata da loro anagrammata come

I, TEGO ARCANA DEI

 

cioè, sempre in latino, "Vattene! Custodisco i segreti di Dio".

Curiosa imprecazione davvero, che non solo non rivela nulla, ma come nota divertito Franco Baldini, risulta "addirittura più enigmatica della frase da cui è ricavata - tanto da spingere a chiedersi quale sia l'utilità  di nasconderla in un anagramma".

Richard Andrews e Paul Schellenberger, partendo dai medesimi presupposti, completano la frase con il verbo sottinteso, sum, e la anagrammano in modo ancora diverso:

 

ARCAM DEI TANGO IESU

 

cioè "Io tocco la tomba di Dio Gesù": altra interpretazione a dir poco azzardata, dal momento che anagramma anche quello che non c'è!

Lo stesso Baldini, tuttavia, pur dopo aver dichiarato assurda l'ipotesi di Baigent, Leigh e Lincoln, indulge stranamente ad un'altra interpretazione, se possibile ancor più astrusa: quella proposta dal latinista Vincenzo Franchini, secondo il quale la frase sarebbe l'anagramma perfetto di

 

ARA IN TEGEA DICO

 

cioè "Narro del sepolcro in Tegea", con riferimento ad un brano di Erodoto cui abbiamo fatto cenno in un altro capitolo.

Ora, che l'anagramma sia perfetto è vero, ma è strano che un latinista sorvoli con tanta disinvoltura sul fatto che la frase è completamente sgrammaticata: infatti l'ablativo "ara", da intendere come complemento di argomento, dovrebbe rigorosamente essere preceduto da de ("de ara"): Baldini, pur di dare ragione a Franchini, sostiene che "il "de" - come avveniva quasi sempre in latino - è sottinteso": affermazione singolare e veramente poco condivisibile, a meno che Giulio Cesare, con i suoi De bello Gallico e De bello civili, e come lui praticamente tutti gli autori latini classici e postclassici, non fossero in controtendenza con le normali abitudini grammaticali della lingua latina.

Strana tesi, dunque, quella abbracciata da Baldini, il quale fa poi puntigliosamente notare che "il verbo "dico" non significa dunque "dedico" - se così fosse richiederebbe l'accusativo "aram" - bensì è da intendere nel senso di "narro, racconto". La frase "DICO (DE) ARA IN TEGEA" - tenuto conto del fatto che il termine "ara" designava comunemente anche il sepolcro - significa dunque esattamente: "NARRO DEL SEPOLCRO IN TEGEA", concordando alla perfezione con il brano di Erodoto che abbiamo supposto costituire il referente letterale del dipinto."

Anche sul fatto che ara sia usato per indicare comunemente il sepolcro ci sarebbe da eccepire: senza contare che, se la frase significasse questo, l'anagramma risultante sarebbe più astruso ed incomprensibile dell'originale: precisamente la critica che Baldini rivolge a Baigent, Leigh e Lincoln, ma che ben più a proposito dovrebbe riferire a se stesso.