L'ipotesi
del "Circolo
di Cos"
come presursore
dell'Arcadia
moderna,
i cui membri, come
si è
visto, sarebbero
i custodi di
strani misteri
ed inquietanti
segreti, è
tanto affascinante
quanto a
mio parere azzardata:
una simile Arcadia,
seppure sia
mai esistita
nei termini
prima descritti,
sembra essere
solamente moderna.
Inoltre, ed
è questo
che soprattutto
m'interessa,
è
da sfatare l'idea
che il mito
dell'Arcadia
nasca con Teocrito
e con il presunto
"Circolo
di Cos", a
meno che non
si voglia intendere
il termine
"Arcadia"
in senso metaforico: il
poeta infatti
non ambienta
i suoi Idilli
in Arcadia,
né fa
cenno a questa
regione della
Grecia; l'ambientazione
dei suoi idilli
pastorali è
mediterranea
e riflette la
campagna assolata
della Sicilia,
sua terra
natale, o dell'isola
di Cos. Chi
dà l'avvio
al mito dell'Arcadia
è
il Virgilio
delle Bucoliche.
Ciò che
infatti prevale nella
poesia bucolica
virgiliana,
che
appare come
connotato fondamentale
dell’opera,
è proprio
l’individuazione
di un locus
amoenus, un
luogo ideale
per bellezze
naturali e per
tranquillità,
in cui "vivere
appartato"
secondo i suggerimenti
epicurei, al
riparo dalle
tempeste della
vita e della
politica, che
in quel momento
stava dilaniando
l'Italia con
la terza guerra
civile (di cui
si colgono echi
dolorosi nelle
ecloghe considerate
autobiografiche,
la I e la IX).
Ma
quale
luogo è
individuato
da Virgilio
come
amoenus? La
collocazione
geografica delle
ecloghe è
generalmente
vaga: tre volte
si tratta probabilmente
della Val
Padana, cioè
la campagna
del poeta stesso
(ecl. I, VII
e IX), una volta
della Sicilia,
per la precisa
imitazione teocritea
(ecl. II, in
cui Coridone
è modellato
su Polifemo).
Ma in Virgilio
il locus
amoenus per
eccellenza è
l'Arcadia, terra
del dio Pan,
che, come sappiamo
da un epigramma
di Meleagro
(AP VII 535),
è il
dio
dei pastori.
Nelle
Bucoliche
i
riferimenti
all’Arcadia
come luogo di
poeti cantori
sono frequenti:
basti pensare
all’Arcades
ambo della VII
Ecloga (VII
4), in cui l’indicazione
serve a sottolineare
le qualità
ideali dei due
gareggianti,
e supera l’incongruenza
della collocazione
geografica presso
il Mincio.
Ritratto
di Virgilio
Ma
è soprattutto
nella X ecloga
che l'Arcadia appare
come locus amoenus:
una regione
remota e appartata che
potrebbe fungere
da
rifugio per
Cornelio
Gallo, il
quale, abbandonato
da Licoride,
soffre per amore;
una terra ricca di canti
bucolici che
permettono un’evasione
dal reale.
Ma
è proprio
questa evasione
dal reale, o
meglio dalla
sua sofferenza,
che rifiuta
Gallo, il quale
alla fine non
accetterà
l'invito di
Virgilio a trasferirsi
in Arcadia e
preferirà
rimanere schiavo
d'amore (per
lui infatti
amor omnia vincit).
E' evidente
il valore metaforico
e metapoetico
del componimento:
Cornelio Gallo
simboleggia
la poesia
elegiaca, di
cui era stato
il fondatore
latino, e Virgilio
quella bucolica,
da lui introdotta
in Roma: la
prima tutta
basata sul servitium
amoris, la seconda
basata all'opposto
sulla
ricerca della
serenità
interiore e sul
rifiuto della
passione erotica
come fonte di
inutili sofferenze.
Appurato
dunque che la
paternità
del mito dell'Arcadia
spetta a Virgilio,
resta da chiedersi
se alla base
del
vagheggiamento
pastorale teocriteo
vi sia qualcosa
di più
e di diverso
dalla semplice espressione
di una volontà
di evasione dal
mondo cittadino
in una zona
di sogno;
magari proprio,
come nel caso
di Virgilio,
un substrato
filosofico.
Volendo
rimanere con
i piedi per
terra, per
spiegare l'idealizzazione
della campagna
da parte di
Teocrito non è
necessario ricorrere
a presupposti
filosofici,
né men
che meno
a tesi artificiose
come quella
della setta
segreta:
potrebbe essere
sufficiente
ricordare che
l’ellenismo
vede la nascita
di megalopoli
caotiche,
affollatissime,
malavitose e
rumorose
(si veda l’idillio
XV, Le Siracusane);
in questo contesto
poteva facilmente
nascere il mito
della serenità
campestre,
poi più
volte ripreso
anche in tono
letterario;
non si dimentichi
che in vari
idilli lo stesso
poeta mette
in luce i molti
difetti
della città.
Ma forse l'interpretazione
è banalizzante.
Teocrito è
diverso dagli
altri esponenti
dell'élite
intellettuale
alessandrina
proprio nel
suo essere estraneo
alle beghe di
corte ed
ai maneggi
per ottenere
cariche prestigiose
come quella
di epistàtes
(direttore della
Biblioteca);
egli si estrania
da questa realtà
per entrare
in un'altra
per così
dire virtuale,
che per molti
versi può
ricordare un
odierno gioco
di ruolo: e
qui vive una
vita appartata
con gli amici
che condividono
la sua visione
del mondo.
Ma
che
cosa fanno Teocrito ed
i suoi amici
"pastori"
in
questo locus
amoenus?
Salvo eccezioni
(Idillo X, I
mietitori),
trascorrono
il loro tempo
in due attività:
amare e cantare.
L'amore
è rappresentato
in una serie
quanto mai varia
di sfaccettature,
dall’affanno
che non dà
tregua (si veda
il II idillio,
che descrive
la malattia
d'amore di Simeta) alla
gioia (si veda
il XII Idillio,
in cui l’inizio
riecheggia palesemente
un verso di
Saffo: "sei
venuto, caro
fanciullo, con
la terza notte
ed aurora, sei
venuto: ma quelli
che desiderano
invecchiano
in un giorno:
quanto la primavera
dell’inverno,
quanto la mela
della prugna
selvatica è
più dolce,
quanto la pecora
più villosa
della sua agnella,
quanto una vergine
preferibile
a una donna
che si sia maritata
tre volte, quanto
più veloce
del vitello
è il
cerbiatto, quanto
l’usignolo dalla
voce arguta
è più
canoro di tutti
gli uccelli,
tanto mi rallegrasti
apparendo: ed
io fui come
un viandante
che corre sotto
l’ombrosa quercia
quando il sole
brucia")
ad una certa convenzionalità,
che risente
di modi abituali
nell’alessandrinismo.
Sempre, però,
Teocrito
sembra mantenere
nei confronti
dei turbamenti
d'amore dei
suoi personaggi
un distacco
superiore e
ironico che
gli deriva dalla
piena adesione
ai princìpi
della poetica
di Callimaco
(bene espressi
soprattutto
nel già
ricordato Idillio
VII, Le Talisie).
Questa caratteristica
e gradevole
ironia, che
fa parte del
"senso
della misura"
così
caratteristicamente
teocriteo, è
particolarmente
evidente nell'XI idillio,
Il Ciclope,
ove Polifemo
illustra
a Galatea i
suoi beni, cercando
di vantare la
condizione di
agiatezza in
cui si trova
e di valorizzare
il suo aspetto
fisico, non
del tutto spregevole
nonostante l’unico
occhio sovrastato
da un sopracciglio
villoso, o nel
X idillio, I
mietitori, in
cui il poeta
crea un contrasto
tra il lirismo
appassionato
di Buceo, che
effonde con
accenti intensi
il suo recente
amore, e il
tono rude e
sgrigativo
di Milone, che
non ritiene
utile e produttivo
perdere tempo
e fatica dietro
a queste cose.
Il
secondo tema,
quello del canto
poetico, è
fondamentale: la
poesia risolleva
l’animo abbattuto
dalla sventura
o dall’amore
respinto, allevia
la fatica, dà
piacere agli
uomini, consegna
i mortali all'immortalità,
è in
grado di trasmettere
delle verità
(si vedano ancora
le parole di
Lìcida
nelle Talisie);
più
di una volta
il poeta ci
fa assistere
ai canti
amebei dei pastori
(come
nell'idillio
IX I Cantori),
conclusi spesso
da un reciproco
scambio di doni
o inquadrati
in una competizione,
che vede un
vincitore e
un vinto; la
vittoria viene
decretata da
un giudice improvvisato
sulla
base del rispetto
di una
serie di regole
sottintese che
ci sfuggono
totalmente,
ma che risultano
"evidenti"
ai personaggi:
nel caso delle
Talisie, per
esempio, risulta
"chiaro"
che il vincitore
è Simìchida,
come lo stesso
Lìcida
ammette, sebbene
a noi risultino
incomprensibili
le motivazioni di
questa vittoria.
Ora,
questo stile
di vita fatto di
amori giocosi
e di canto,
a contatto diretto
con la natura
incontaminata, ricorda
in modo impressionante
il
λάθε
βιώσας
epicureo:
anche se non
ci sono documentati
per Teocrito
rapporti con
i filosofi del
suo tempo (come
ci sono invece
documentati
per Virgilio),
possiamo dire
che l’ideale teocriteo
dell’ἁσυχία
(hasychìa),
finalità
primaria della poesia, traduca
in termini poetici
l’ideale epicureo della
ataraxìa.
Anche il distacco
ironico manifestato
nei confronti
della passione
d'amore è
coerente con
i princìpi
dell'epicureismo,
come pure la
valutazione
estremamente
positiva della
φιλία
(amicizia).
Proprio nella
ristretta cerchia
dei suoi amici,
infatti, e non
nella solitudine,
Teocrito cerca
il ritiro dal
mondo, realizzato
senza l’astiosità
polemica che
rintracciamo nelle dichiarazioni
di poetica di Callimaco;
la poesia deve
aiutare gli
amici a raggiungere
la pace dello
spirito, la
felicità
che Epicuro
voleva comunicare
ai suoi seguaci
sul piano razionale
per mezzo della
filosofia; ma
per raggiungere
questa pace
è necessario
vivere κατὰ
φύσιν
("secondo
natura"),
come afferma
lo stesso Epicuro
e come Teocrito
e i suoi amici
di Cos mettono
in pratica.
Come
ripeto, non
abbiamo alcuna
conferma circa
l'adesione di
Teocrito alla
filosofia epicurea;
certo è,
però,
che un substrato
filosofico di
questo genere
si attaglia
perfettamente
allo stile di
vita del "Circolo
di Cos"
e dei suoi pastori-poeti;
potrebbe quindi
non essere un
caso che l'epicureo
Virgilio si
sia orientato
a colpo sicuro
verso la poesia
bucolica di
Teocrito: egli
forse sapeva,
o comunque avvertiva,
che un identico orientamento
filosofico lo
accomunava al
poeta greco.
La
gioia semplice
dell’uomo
che gode del
contatto con
la
natura si esprime
in particolare
nelle Talisie:
alla campagna
Teocrito guarda
con amore autentico;
la conosce veramente,
non guarda ad
essa con romantica
nostalgia. La
natura ed il
paesaggio sono
paradiso della
contemplazione,
unione dello
spirito con
l’ambiente dei
campi che è
l’unica sede
di una primigenia
felicità.
Questo risulta
particolarmente
evidente nel
finale: il
luogo in cui
Simìchida
ed i suoi amici
sono diretti
è una
sorta di
locus amoenus
antropizzato:
gli uomini hanno
creato "alti
giacigli di
giunco / soave,
e pampini di
vite appena
colti" (ib. vv.
134-135). Sono presenti
alberi ombrosi
e una sorgente
nella grotta.
Sui rami le
cicale friniscono,
l’usignolo gorgheggia.
Si sentono anche
altri suoni
familiari e
rassicuranti:
le allodole
ed i cardellini,
la tortora,
le api. Nella sinestesia
finale, creata
dal profumo
del raccolto
dei frutti (ib.,
vv. 135-145),
tutti i sensi
sono coinvolti
in questo tardo
pomeriggio autunnale
dalla luce caldissima.
Il
vagheggiamento
pastorale teocriteo, dunque, non
è (ancora)
Arcadia, ma
è semmai
idealizzazione
della physis, contrapposta
al nòmos
come una sorta
di antidoto,
ed il pastore-poeta
è una
sorta di moderno
"buon
selvaggio"
intellettuale
che tenta il
ritorno alla
naturalità
portando con
sé tutto
il bagaglio
della raffinata
cultura cittadina,
e, forse, della
filosofia epicurea.
(Fonti:
http://www.rivistazetesis.it/Bucolica/
http://skuola.tiscali.it/datas/uploads/30527-2-natura_in_teocrito.doc
http://webthesis.biblio.polito.it/432/
http://www.edicolaweb.net/arti130a.htm)
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