Giunto
a Pietroburgo,
Myškin si
reca dal generale
Epancin, suo
parente, e apprende
che il segretario
di questo, Ganja,
vorrebbe sposare
Nastasja Filippovna,
attirato più
che altro dalla
dote che un
passato amante
e benefattore
le ha destinato
e dalle relazioni
di costei. Rogozin
offre una cifra
pari alla dote
di lei purché Nastasja
rifiuti Ganja
e diventi la
sua amante,
ma Myskin,
misteriosamente
attratto dalla
donna, si dichiara
pronto a sposarla
per sottrarla
a quel mercato
umiliante.
Nastasja,
commossa ma
incredula, fugge
con Rogozin.
Di Myskin s'innamora
intanto la giovane
e aristocratica
figlia del generale
Epancin, Aglaja:
ma fra le due
donne, Myskin
sceglie (sognando
di strapparla
una seconda
volta a Rogozin)
Nastasja.
Conscia
della assoluta
e profonda bontà
del principe,
Nastasja
esita a lungo
ma, sentendosi
indegna di lui,
si abbandona
a Rogozin,
il quale però
intuisce la
vera natura
di quella scelta
e, folle di
gelosia per
il rapporto
ambiguo che
lega Myskin
a Nastasja,
tenta prima
di uccidere
l’amico, infine
uccide la
donna.
Sul
cadavere di
Nastasja, Rogozin
veglia una notte
intera assieme
a Myskin, che
ripiomba
in questa circostanza
nel suo stato
di idiozia,
ritorno finale
allo stato di
purezza dell’infanzia
come rifiuto
del male del
mondo, l’unica
autodifesa possibile
per un "idiota".
Può
sembrare strano,
ma la molla
che fece scattare
la determinazione
di tradurre
in un romanzo
questa idea
fu la visione
di un quadro,
che Dostoevskij
aveva potuto
ammirare proprio nel
1867 a Basilea
e da cui era
rimasto fortemente
impressionato,
tanto che nel
corso del romanzo
il dipinto
è più
volte citato
e discusso dai
personaggi.
Si
tratta del Cristo
nella tomba di
Hans Holbein
il Giovane del
1520-22,
un dipinto fra
i più
notevoli della
storia dell'arte,
che riproduco
qua sotto. Sia
la visione d'insieme
che il dettaglio
risultano altrettanto
raccapriccianti,
per motivi diversi:
la prima perché
il Cristo è
claustrofobicamente
schiacciato
in uno spazio
angusto dal
quale sembra
incapace di
evadere, il
secondo perché
mette in evidenza
l'estremo realismo
con cui è
rappresentato
il cadavere:
Nel
saggio introduttivo all’Idiota dell’edizione Sansoni, Ettore Lo
Gatto scrive che “a proposito di Cristo è da rilevare anzitutto che il
suo nome non compare quasi nel romanzo, nonostante che la sua immagine
sia presente nel pensiero di quasi tutti i personaggi”, e più avanti
riafferma che “Cristo non compare in forma diretta nel romanzo”. Ma quest'affermazione
non è
del tutto esatta,
perché Dostoevskij presenta ben chiara e potente l’immagine
del Cristo quando insiste per ben due volte, in pagine di grande forza,
sul quadro Hans Holbein il giovane, che Rogozin
possiede in copia nella sua casa.
Il principe Myškin, alla vista del dipinto, afferma: “Questo quadro
l’ho già visto all’estero e non posso dimenticarlo”, e aggiunge “Questo
quadro! Questo quadro! Ma più d’uno guardando questo quadro, può
perdere la fede!”. Anche Ippolit nella sua lunga spiegazione parlerà
dello stesso quadro e sembra che chiarisca l’esclamazione di Myškin:
quel quadro può far perdere la fede perché in esso il Cristo è spogliato da
tutta la sua bellezza: “era in tutto il cadavere d’un uomo che ha
sopportato infiniti tormenti ancor prima di venir crocifisso (…); gli
uomini che circondano il morto, ma di cui neppur uno si vedeva nel
quadro, dovettero provare un’angoscia e una costernazione terribile in
quella sera che aveva frantumato di colpo tutte le loro speranze e
quasi la loro fede”.
In
effetti il nocciolo
del problema
è proprio
questo: il
Cristo nel sepolcro
sembra non poter
risorgere,
e questo ovviamente
scardinerebbe
le fondamenta
stesse della
fede cristiana.
Analizziamo
i vari punti
critici del
dipinto: il
formato
innanzitutto:
siamo di fronte
ad un quadro
lungo e stretto,
2 metri di lunghezza
per 30 centimetri
di altezza:
in pratica
il loculo dove
è deposto
Gesù,
a grandezza
naturale. L'impressione
è opprimente
e il corpo sembra
quasi che vi
sia incastrato.
Il realismo
della rappresentazione
è molto
crudo, secondo
la tradizione
fiamminga (tradizione
ripresa poi
da Mel Gibson
nel discusso
e discutibile
film “La Passione
di Cristo”).
Qui c'è però anche
un altro problema:
non sono tanto
i segni del
martirio ad
essere visibili,
ma il fatto
che siamo
di fronte ad
un cadavere
in una fase
iniziale di
decomposizione,
cosa che ovviamente
fa a pugni con
la risurrezione
di Cristo al
terzo giorno
dalla morte
in croce. Se
guardiamo le
mani e i piedi
hanno un colorito
grigio-violaceo,
la mano destra
è rattrappita
e quasi scheletrica,
il volto è
scavato, la
bocca semiaperta,
gli occhi infossati
e il naso affilato
e scurito.
Tutto
fa pensare ad
un cadavere
in decadimento
e non certo
ad un corpo
che sta per
risorgere. Nelle
numerosissime
rappresentazioni
artistiche di
Cristo morto,
in ogni periodo
della storia
nessun pittore
aveva mai indugiato
su certi dettagli,
nessuno aveva
mai mostrato
in modo così
evidente il
disfacimento
del corpo del
Redentore. E’
logico quindi
pensare che
in questo dipinto
l’artista abbia
voluto esprimere
in modo neanche
troppo implicito
tutti i suoi
dubbi circa
la possibilità
di una vita
ultraterrena.
Di qui l'accorata
esclamazione
del principe
Myškin: "più d'uno guardando questo quadro, può
perdere la fede!”.
Il
punto è
che il Cristo di
Holbein è
privo di bellezza, di quella
bellezza che cambierà il mondo, secondo le parole che Myškin amava
ripetere. E l'assenza di bellezza nel mondo ci consegna al nonsenso ed alla
disperazione,
dalla quale
Myškin trova
una via di fuga
soltanto nella
follia.
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