Nel caso
in cui l'occhio
si disponga
a guardare da
lontano, la
forma trionfa
nella sua organica
interezza e
la parola si
scioglie nei
rivoli dei mille
imperscrutabili
particolari;
quando invece
l'occhio s'impegni
ad avvicinarsi
al testo per
leggerlo, vocale
per vocale,
consonante per
consonante,
allora prende
corpo la parola
e la cosa che
essa raffigura
si sfilaccia
e si perde nel
regno senza
forma dei fantasmi.
René
Magritte, L'inganno
delle immagini
(1953)
Magritte, insomma,
metterebbe in
luce (dopo aver
provocato la
frattura) il
fallimento della
congiunzione
del guardare
e del leggere:
infatti, sia
la frase scritta
sia la pipa
raffigurata
conservano,
se così
si può
dire, la "memoria"
di un antecedente
calligramma
che però
ha subito una
serie di sollecitazioni,
tali da distaccare
le parti, e
adesso scrittura
e raffigurazione
vivono in uno
stato di autonomo
isolamento,
l'una negando
all'altra qualsiasi
autenticità
e autorità
interpretative.
Adesso il rumore
della battaglia
è solo
una lontana
reminiscenza
e in un ironico
silenzio di
negazioni reciproche,
e di autonegazioni
brucianti, quello
che non c'è
più è
proprio
la pipa: essa
sta per scivolare
via, grigia
forma vuota
e gigantesca,
pronta a involarsi
oltre la cornice:
La magia e il
mistero di questa
immagine hanno
le loro radici
proprio nel
principio della
perdita, in
quel naufragio
dell'interezza
e dell'unità
del calligramma
che metaforicamente
innesta un parallelo
principio di
scollamento
e di vanificazione
della realtà.
L'oggetto-pipa
già si
è dipartito
sulla linea
di un orizzonte
contrassegnato
dal limite del
pavimento in
legno: come
una nube di
fumo, come un
aerostato senza
timone. E però
le cose si complicano,
perché
quello spazio
simbolicamente
infinito è
anche parete,
superficie su
cui a sua volta
può essere
stata tracciata
l'immagine,
e la grande
pipa di fumo
è tanto
poco pipa come
nel caso di
quella dipinta
sulla tela-lavagna.
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