Il
testo di gran
lunga più
importante è
il cosiddetto
"proemio
dei Telchini",
ovvero il secondo
proemio degli
Àitia.
Esso
è ispirato
da un'evidente
intenzione polemica
nei confronti
dei suoi detrattori,
definiti appunto
"Telchini"
per motivi che
chiarirò
in seguito,
i quali avevano
mal giudicato
la prima
edizione degli
Àitia,
in due libri;
le accuse vertevano,
pare, sulla
disorganicità
e sulla mancanza
di unitarietà
dell'opera,
composta di
elegie staccate
e prive di un
centro unificatore,
eccezion fatta
per il tenue
fil rouge
costituito
dalla finzione
delle domande
poste da Callimaco
alle Muse che
gli erano apparse
in sogno nel
proemio "esiodeo":
ogni domanda
verteva sulle
origini o sulle
antiche cause
di un qualche
fenomeno contemporaneo,
da cui il titolo
di Àitia,
"Origini"
o "Cause";
a tali domande
le Muse rispondevano
soddisfacendo
la curiosità
del poeta. Si
trattava dunque
di poesia
"eziologica"
(letteralmente:
"che ricerca
le cause").
Callimaco
risponde da
par suo alla
stroncatura
di questi
critici: non
solo non fa
ammenda delle
"colpe"
riconosciutegli,
ma peggiora
la situazione
dando alla luce
una seconda
edizione dell'opera,
in quattro libri,
nella quale
non solo mantiene intatte
le caratteristiche
della prima
edizione, ma
addirittura
sopprime
la finzione
del botta-e-risposta
con le Muse,
eliminando così
il
già sottilissimo
legame tra le
varie elegie.
E' a questo
punto che aggiunge
un secondo proemio,
senza eliminare
il primo: si
tratta appunto
del "proemio
dei Telchini".
Gustave
Moreau,
Esiodo
e
la
Musa,
1891
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Questo
proemio, in
aperta polemica
con gli avversari
del poeta, espone
tutti i principi
essenziali della
poetica di Callimaco, che
sarà
fatta propria
dall'intero
alessandrinismo
e più
tardi, in Roma,
dai poeti preneoterici
(il "circolo
di Lutazio Catulo",
fiorito verso
la fine del
II secolo a.C.)
e dai poëtae
novi,
chiamati ironicamente
da Cicerone
neoteroi
(comparativo
assoluto: "abbastanza
nuovi"),
attivi in Roma
nel I secolo
a.C. e per noi
rappresentati
quasi solo da
Catullo;
non a caso questi
principi sono
noti attraverso
la sintetica
formula latina
brevitas
atque ars e
la terminologia
in uso per definirli
è
latina: levitas,
brevitas,
novitas,
ars (o
labor limae),
doctrina,
varietas.
Più
in dettaglio
si tratta di
questo:
a. insofferenza
per l'impegno
ideologico e
per la retorica;
di conseguenza,
ricerca del
disimpegno e
della leggerezza
(levitas,
λεπτότης)
e concezione
della poesia
come "gioco"
(lusus,
παίγνιον);
b. avversione
per i componimenti
"grossi"
(cioè
estesi: caso
tipico il poema
epico-ciclico)
e ricerca della
brevitas;
c.
disprezzo per
il passato poetico
della Grecia
(dal quale restano
esclusi Esiodo,
qualche lirico
come Ipponatte
e, con riserva,
Omero), in una
ricerca esasperata
della novitas;
d.
svalutazione
del contenuto
rispetto alla
forma (poesia
"pura"
o "verbale")
e produzione
di componimenti ricercatissimi
sul piano formale,
al limite anche
astrusi (ars,
labor
limae);
e.
ostentazione
dell'erudizione,
vero e proprio
segno di riconoscimento
fra intellettuali,
teso ad escludere
dalla fruizione
dell'opera la
massa degli
zotici, ovvero
di tutti coloro
che non sono
in possesso
dei mezzi atti
alla decifrazione
dell'allusione
colta (doctrina);
f.
dal punto di
vista del contenuto,
tendenza al
realismo (sia
pure, spesso,
di maniera),
al quotidiano,
al sentimentalismo,
oppure alla
ricerca di temi
mitologici peregrini
o marginali,
svuotati di
ogni pregnanza
ideologica (il
mito diventa
mitologia, semplice
repertorio di
favole), nella
esasperata rincorsa
di una varietas
che renda piacevole
e mai noiosa
la lettura.
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