GIACOMO LEOPARDI E ANTONIO RANIERI

 

 

Quando Leopardi lo conobbe a Firenze nel 1827, il napoletano Antonio Ranieri era uno studente ventunenne, che un biografo descrive così: "giovanissimo, bellissimo, aitante della persona" e con "quell'ardor giovanile dell'animo che tanto piace al bel sesso" (Franco Ridella, Una sventura postuma di Giacomo Leopardi, Clausen, Torino 1897, pag. 179).

Nel 1830 la frequentazione si fece assidua, e nell'inverno 1831/32 i due trascorsero cinque mesi a Roma, ufficialmente per la salute del Leopardi, in realtà perché Ranieri voleva star vicino all'attrice Maria Maddalena Pelzet (sposata!) per cui smaniava.

Quando nel 1832-33 Ranieri tornò a Napoli dalla famiglia, che versava in dissesti finanziari sempre più gravi, Leopardi gli scrisse da Firenze frequenti lettere d'amore. In esse leggiamo dichiarazioni come questa: "Ranieri mio, tu non mi abbandonerai però mai, né ti raffredderai nell'amarmi. Io non voglio che tu ti sacrifichi per me, anzi desidero ardentemente che tu provvegga prima d'ogni cosa al tuo ben essere: ma qualunque partito tu pigli, tu disporrai le cose in modo, che noi viviamo l'uno per l'altro, o almeno io per te; sola ed ultima mia speranza. Addio, anima mia. Ti stringo al mio cuore, che in ogni evento possibile e non possibile, sarà eternamente tuo" (Giacomo Leopardi, Lettere, Salani, Firenze 1958; lettera 481, 11/12/1832).

 

 

Busto di Giacomo Leopardi

 

Un'amicizia così accesa non passò inosservata, come emerge da un'altra lettera che accenna alle derisioni che scatenava: "Povero Ranieri mio! Se gli uomini ti deridono per mia cagione, mi consola almeno che certamente deridono per tua cagione anche me, che sempre a tuo riguardo mi sono mostrato e mostrerò più che bambino. Il mondo ride sempre di quelle cose che, se non ridesse, sarebbe costretto ad ammirare; e biasima sempre, come la volpe, quelle che invidia. Oh Ranieri mio! Quando ti ricupererò? Finché non avrò ottenuto questo immenso bene, starò tremando che la cosa non possa esser vera. Addio, anima mia, con tutte le forze del mio spirito. Addio infinite volte. Non ti stancare di amarmi" (Giacomo Leopardi, Lettere, Salani, Firenze 1958; lettera 486, 11/12/1832).

Quando infine Ranieri parte alla volta di Firenze per andare a prendere l'amico, al quale ha proposto di vivere a Napoli insieme, Leopardi gli scrive: "Ranieri mio. Ti troverà questa <lettera> ancora a Napoli? Ti avviso ch'io non posso più vivere senza te, che mi ha preso un'impazienza morbosa di rivederti, e che mi par certo che se tu tardi anche un poco, io morrò di malinconia prima di averti avuto. Addio addio" (Giacomo Leopardi, Lettere, Salani, Firenze 1958; lettera 498, 11/12/1832).

Ranieri stesso si affannò a rivelarci da cosa nascessero "scandalo" e derisione: dall'eccessiva intimità fra i due. Appena arrivati a Napoli assieme, nel 1833: "io, lasciatone il mio antico letto, dormiva in una camera non mia (cosa che nelle consuetudini del paese, massime in quei tempi, toccava quasi lo scandalo), per dormire accanto a lui" (Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Garzanti, Milano 1979, p. 55).

Tanta premura suscitò i sospetti della padrona di casa, che "Mi dichiarò: ch'io le aveva introdotto un tisico in casa; che, amandolo tanto da fargli le nottate, non altra poteva essere la cagione onde non gliele facessi in casa mia [non c'era ragione per non fargliele a casa mia]; ch'essa voleva, ad ogni costo, essere sciolta dall'affitto" (ibidem, pag. 56).

Del resto un incidente simile era già accaduto durante il già citato soggiorno comune a Roma nel 1831/32: un maligno parrucchiere compaesano di Leopardi, stupito della convivenza fra i due, s'era premurato di riferire certi pettegolezzi a Ranieri. Ranieri nel suo libro riconferma la sua amicizia, però aggiunge velenoso: "Ma, io confesso, che non avrei mai inteso concedergli quella <libertà> che mi si riferisce leggersi in alcune delle sue lettere. E dico: mi si riferisce; perché, insino da una prima pubblicazione di questa specie, io, tre volte tentai di farne lettura, e tre fui preso dalla febbre" (ibidem, pag. 39). Quali che fossero le convenzioni dell'amicizia dell'Ottocento, è Ranieri stesso a dirci che le lettere di Leopardi andavano oltre l'accettabile, al punto che la sola lettura gli procurava la febbre decenni dopo; anche se naturalmente è una puerile scusa quella con cui Ranieri pretende di non aver mai letto le lettere.

Giovanni Dall'Orto conclude: "le memorie scritte da Ranieri sono inattendibili. Esse furono scritte non per tramandare, ma per occultare "qualcosa". Forse una relazione omosessuale? Ahimè, purtroppo no: si tratta più banalmente di una relazione parassitica. Ciò che Ranieri non solo tace nelle memorie, ma anzi occulta descrivendo Leopardi come suo ospite spesato di tutto, è che la sua famiglia era alla bancarotta. Negli anni in cui i due convissero, fu Leopardi a pagare i conti. Anzi: a un certo punto si trovò in casa pure la sorella di Ranieri, Paolina. Questa "scoperta" cambia l'ottica in cui leggere la relazione. Che Leopardi fosse cotto di Ranieri, ce lo dicono a sufficienza le lettere. Che Ranieri, perso nei suoi amori con donne, reciprocasse tale amore, lo nega la sua biografia. Se dunque amore ci fu, esso fu a senso unico".

Certo questo colpo di scena cambia completamente le cose!

Fu davvero così? Non lo sapremo mai. Generalmente l'ottica in cui viene letto questo rapporto è radicalmente diversa, per non dire opposta; e Ranieri, con tutti i suoi difetti, ne esce molto meglio.

Il tono appassionato delle lettere di Giacomo può anche essere interpretato come il grido di esultanza che una persona che sta annegando sta rivolgendo al suo salvatore. Si fa notare poi che in quel periodo un tale modo di relazionarsi con un amico era abbastanza frequente (?). Renato Minore sottolinea come "la tremenda paura della solitudine portò Giacomo ad alzare il tono delle sue richieste che erano vere e proprie invocazioni: 'ti sospiro sempre come il Messia'…". Quanto al sospetto che il rapporto con Ranieri potesse essere di tipo omosessuale, Renato Minore dice semplicemente che "non ci sono prove" ed il Montanelli parla semplicemente di "voci malevole".

Fatto sta che quando Ranieri  nell'autunno del '30 incontra a Firenze un Leopardi disperato, malato e sofferente,  dice all'amico che pensava di andare a morire a Recanati: "Leopardi, tu non andrai a Recanati! Quel poco onde so di poter disporre, basta a due come ad uno; e, come dono che tu fai a me, e non io a te, non ci separeremo più mai" (A. Ranieri - Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi - Se, pag. 28).

Quando Ranieri pronuncia queste parole probabilmente è solo un napoletano che con teatralità partenopea rassicura un povero cristo promettendogli la cosa di cui aveva sommo bisogno: un po' d'affetto. Nel suo libro il Ranieri descriverà spesso un Leopardi sporco, testardo, irriconoscente, ghiotto di dolci e gelati, e pieno di difetti. Probabilmente c'è un fondo di verità anche in questo. Ma alla fine, quel che conta è il semplice fatto che Ranieri si prese cura di un infermo per sette lunghi anni.

Quanto alle lettere del Leopardi che fecero tanto arrabbiare Ranieri, anche lì c'è un fondo di verità: l'esuberanza a volte eccessiva dei napoletani, la furbizia spinta a volte fino ai limiti della legalità, la prepotente teatralità di quel popolo, non potevano essere comprese da una persona delicata e schiva, cresciuta all'ombra del padre in una biblioteca di paese.

Ranieri, da buon meridionale, era straripante negli affetti, come pure nelle passioni: si comprende quindi la sua reazione umorale e indispettita alle accuse rivoltegli. Egli era di temperamento sanguigno e sprizzava energia da tutti i pori. Era, insomma, tutto l'opposto di Giacomo, salvo per il fatto che amava le lettere ed era un uomo di cultura.

"Chi gratuitamente accusa questo buon napoletano - scrive Natale Missale - di avere protetto ed aiutato Leopardi per loschi interessi, certamente si sbaglia. Nella gente del sud, tali slanci sono molto comuni. Che avendo scorto la genialità di Giacomo pensasse pure di poter un giorno brillare di luce riflessa, forse è pure pensabile. Ma ciò nulla toglie alla sua generosità.

Quanto poi alla descrizione che egli fa del Leopardi nel suo breve libro, sicuramente ci deve essere anche del vero. Ha esagerato forse un po' perché stizzito da quelle lettere napoletane spedite dal suo amico.  Fatto sta che il povero Giacomo riusciva a trascinare la propria vita solo attraverso l'amico Antonio. Partecipava attivamente alle sue avventure galanti, lo consolava quando soffriva per la donna di turno, gli faceva persino da quasi paraninfo. Insomma, fra i due c'era un sincero affetto."

Voglio compiere un atto di fede e credere che le cose stessero così; anche perché non credo che Giacomo sarebbe potuto convivere per tanti anni con un uomo spregevole: la forza dell'infatuazione, se pure ci fu, non poteva renderlo così cieco.

Antonio Ranieri non venne meno all'amico neppure dopo la morte, dovuta a cause mai comprese fino in fondo. Si sa soltanto che Giacomo si sentì male al termine di un pranzo, il 14 giugno 1837, e morì quasi improvvisamente. Molte sono state le ipotesi formulate sulle cause, dalla più accreditata, pericardite acuta, a quelle più fantasiose, come l'ingestione di cibo avariato. Nessuna delle tesi alternative, tuttavia, è riuscita a smentire il referto ufficiale, diffuso proprio da Antonio Ranieri: idropisia. Tuttavia Leopardi era morto in un periodo in cui il colera stava colpendo la città di Napoli, per cui si è pensato che il morbo fosse il vero responsabile del decesso. Ma secondo i recenti studi del professor Gennaro Cesaro (Sfrondando gli allori della poesia dell'800 e del 900) il poeta, che come s'è detto era amante dei dolci, sarebbe morto per aver mangiato addirittura un chilo di confetti di Sulmona, regalatigli dalla sorella di Ranieri; un brodo caldo di pollo ed una limonata fresca, dategli probabilmente come rimedio per l'indigestione da confetti, avrebbero aggiunto alla suddetta indigestione una congestione intestinale.

Quale che sia stata la causa della morte di Giacomo, fu ancora una volta grazie ad Antonio Ranieri, che fece interessare della questione il ministro di Polizia, se le sue spoglie non furono gettate in una fossa comune - come le severe norme igieniche richiedevano a causa del colera che colpiva la città - ma, secondo la versione ufficiale dei fatti, inumate nell'atrio della chiesa di San Vitale, sulla via di Pozzuoli presso Fuorigrotta. Nel 1939 la sua tomba, spostata al Parco Vergiliano a Piedigrotta (altrimenti detto Parco della tomba di Virgilio) nel quartiere Mergellina, fu dichiarata monumento nazionale.

 

 

La tomba di Leopardi a Piedigrotta

 

(Fonti:

http://www.internetculturale.it/directories/ViaggiNelTesto/leopardi/c2.html

http://www.taozen.it/saggi/leopardi_ranieri.htm

http://www.giovannidallorto.com/biografie/leopardi/leopardi.html)