Nel ricostruire, attraverso i documenti, l'ultima fase del pensiero leopardiano, troviamo nel Dialogo di Plotino e di Porfirio
del 1827 la prima espressione della necessità di una solidarietà umana
di fronte al destino.
Il dialogo, incentrato sul tema del suicidio e
volto a chiarire le ragioni che lo respingono come soluzione al dramma
esistenziale, si conclude con un‘appassionata esortazione rivolta da
Plotino all’amico: "Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme:
non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita,
dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia
l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso
scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della
vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà,
allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i
compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che
saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora."
Due anni più tardi Leopardi, in una famosa pagina dello Zibaldone, dissipa con forza i sospetti di misantropia di cui era fatto oggetto il suo pensiero: "La
mia filosofia non solo non è conducente alla misantropia, come può
parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l'accusano; ma di
sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a
spegnere quel mal umore, quell’odio, non sistematico, ma pur vero odio,
che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbero esser
chiamati né creduti misantropi, portano però cordialmente ai loro
simili (…). La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e
discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il
lamento, a principio più alto, all’origine vera dei mali dei viventi."
Giacomo
Leopardi
ritratto
da
L.
Lolli,
1826
Negli ultimi anni Leopardi abbandona il pessimismo più "metafisico" per
acquisire un atteggiamento più "relativistico", fondato sul
riconoscimento di un doppio piano della verità, quello dell’"ordine
delle cose" e quello del "modo dell’esistenza", e, di conseguenza, di
una duplice matrice del dolore. C’è il dolore che deriva dall’ordine
delle cose, dunque legato all’essenza stessa della vita e, come tale, è
ineliminabile se non a costo della rinuncia alla vita stessa (si tratta
del dolore inflitto all’uomo dai "mali esterni", ai quali non ci si può
sottrarre: malattie, eventi atmosferici, cataclismi, deperimento dovuto
a vecchiaia). C’è poi un altro tipo di sofferenza, che invece rimanda
al mondo dell’esistenza, cioè alla qualità della vita, alla storia,
alla cultura. Questo secondo tipo di dolore può essere invece
combattuto e rimosso in quanto dipende non dalla natura, ma dall’uomo:
di qui il recupero del vitalismo e la scoperta, da parte della poesia
leopardiana, della dimensione sociale.
Il male storico dipende dal libero sfogo dell’egoismo umano: noi
viviamo tutti per la morte e, anche se accomunati dalla stessa miseria
della vita e dall’odio implacabile della Natura, tendiamo a
contrapporci l’un l’altro per desiderio di affermarci, voglia di
prevalere, che sono la manifestazione degli istinti più bassi. Così
accresciamo il già grande male di vivere.
Ma l’uomo è essere razionale,
soggetto di cultura, dunque può controllare i bassi istinti, che sono
fondamentalmente antisociali, e produrre valori alternativi come la
compassione, la solidarietà, l’amicizia, che invece fondano la società.
E’ questo il compito della ‘filosofia dolorosa ma vera’, che riconosce
francamente il male della vita e mostra concretamente come esso possa
essere mitigato. Questo è il compito del nuovo poeta, che così recupera
la funzione di vate al servizio tanto della verità quanto dell’intera
umanità e si fa promotore di autentica cultura e autentico progresso
sociale.
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