"Senti,
sei proprio sicuro che sia questa la nuova frontiera
del lavoro?"
FALSO!!!
La
crescente ricerca di nuovi mercati su cui concorrere,
tanto cara alla logica di accumulazione indiscriminata
neomercantile e neoliberista, va inevitabilmente a riflettersi
sul mondo del lavoro. Ciò non solo attraverso
una moderazione salariale al limite della sopravvivenza,
ma anche attraverso una ricerca di “flessibilità
competitiva” giustificata da esigenze di “eccessivo
costo del lavoro”.
Tutti
noi quindi sentiamo continuamente ripetere, quasi come
un mantra, che “il mercato del lavoro necessita
di riforme strutturali che favoriscano da un lato la
flessibilità attraverso la deregulation”
(cioè l’eliminazione di vincoli legislativi)
al solo scopo di contribuire ad una maggiore competività
del sistema Paese.
Le
politiche economiche attuali, inaugurate in Italia
dal governo tecnocratico Monti-Fornero, fondano infatti
la loro azione su queste due idee di stampo neoclassico-monetarista:
1)
se si pagano troppi stipendi, cioè se si eliminano
tutti i disoccupati, allora arriva l’inflazione,
cioè ci saranno troppi soldi in giro e il prezzo
delle merci salirà troppo e sempre di più;
2)
se si abbassano gli stipendi le aziende assumeranno
di più.
Ma
per abbassare gli stipendi bisogna che sia lo Stato
ad abbassare/contenere gli stipendi pubblici,
per creare un meccanismo di contenimento/riduzione a
cascata (teorema dei primi del Novecento dell’economista
inglese Cecil Pigou).
In
realtà le analisi che si ricavano dalla
lettura del “Rapporto sulla competitività
dei Paesi nel mondo”2 ci offrono
indicazioni diametralmente opposte. Dalle pagelle agli
Stati emerge che tra i paesi più competitivi
al mondo ci sono la Svizzera (primo posto), la Svezia
(terzo posto), la Finlandia (quarto posto) e la Germania
(sesto posto). Paradossalmente quegli stessi Paesi che,
nello stesso rapporto, presentano scarsa flessibilità
del lavoro, “mercato del lavoro troppo regolamentato”,
troppa burocrazia ed inefficienze.
Le
tutele e i diritti presenti nei suddetti Paesi sono
reputati eccessivi, percepiti come ostacoli ad investire
e come fattori che pregiudicano le vendite all’estero
("the most problematic factors for doing business").
In
base al teorema neoclassico, quindi, il Word Economics
Forum Global Competitiveness Index avrebbe dovuto bocciare
la competitività dei suddetti Paesi perché
afflitti, peraltro, dagli stessi malanni dell’Italia
che, a sua volta, si colloca, sempre nella stessa classifica,
al 43° posto su 193 paesi, dietro Tunisia e Barbados.
La
suddetta analisi dimostra, oltre ogni ragionevole dubbio,
che la rigidità del mercato del lavoro come
causa primaria di perdita di competitività è una
pura menzogna, utilizzata ad arte per concretizzare,
invece, altri obiettivi non espressamente palesati,
come deflazionare l’economia italiana devastando i salari,
quindi i consumi, quindi le imprese, per regalare
agli investitori internazionali (tedeschi prima di tutto)
migliaia di nostre imprese di prestigio con cui fare
shopping fortemente sottocosto:
le cosiddette "privatizzazioni", non a caso
salutate dall'attuale primo ministro Letta come
un grande traguardo. Nel frattempo devastando il
miracolo dell’economia produttiva italiana.
Le
cause del malessere italico vanno ricercate altrove,
proprio dietro a quei meccanismi infernali di recessione/deflazione
che, con lo spauracchio della scarsa competitivtà
(shock therapy), impongono l’adozione di linee
politiche di austerità neoliberiste.
(2)
Rapporto Global Competitiveness Index del World
Economic Forum di Davos (massima assise mondiale della
finanza e dell’industria).
Fonte:
www.scribd.com/doc/106392215/FALSIMITI
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