19. Il denaro che guadagniamo è di nostra proprietà


"...a parte il fatto che a me basta spenderlo!"

FALSO!

 

Il denaro che usiamo sostituisce il baratto e rappresenta una sorta di compromesso tra due persone che compiono uno scambio.

Il denaro è una risorsa finanziaria data in cambio di un bene reale all’atto dell’acquisto. Vendendo un bene reale acquisisco un bene finanziario (il denaro).

Il denaro è un’idea rappresentata da cifre sul tuo conto corrente o da contante, ma il denaro non è una merce ed ha valore solo se esistono due soggetti, uno che lo spende ed un altro che lo accetta.

In realtà ogni banconota rappresenta un credito che passa da un creditore all’altro. In pratica rappresenta il debito che il compratore ha verso il venditore. Possedere una banconota significa avere in mano la garanzia di accettato pagamento futuro. E’ come se qualcuno ci avesse lasciato un documento che attesta la riscossione di un credito che passa dalle sue mani alle nostre.

Lo scambio di denaro in realtà è una cessione di credito da un individuo all’altro.

 

20. Se non fossimo entrati nell'Euro l'Italia sarebbe fallita


"Poveretta, come sarebbe fallita..."

FALSO!

 

L’Italia è nel pieno vortice della crisi dell’euro, che costringe i suoi cittadini in una condizione di continua sudditanza e ricatto, proprio a causa dell’Eurozona, e non "nonostante" essa.

L’ingresso nella moneta unica è stata una delle cause principali del declino economico e sociale italiano degli ultimi 20 anni. Con una politica economica espansiva, e conservando la sovranità monetaria (o meglio recuperandola, perché l'aveva persa già fin dal 19811), l’Italia avrebbe potuto salvaguardare meglio la domanda interna, tutelando cittadini ed imprese.

In piena sovranità monetaria e grazie alla spesa a deficit positiva, l’Italia della “Liretta” dal dopoguerra era riuscita ad entrare nel G7 (cioè nel Gotha dei sette Paesi più industrializzati al mondo), e negli anni ’70-’80 aveva il più alto tasso di risparmio privato al mondo. Risparmio privato oggi quasi del tutto azzerato dalle politiche economico-finanziarie perseguite a partire dall’entrata nell’Euro.

 

 

(1) A partire dal divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia del 1981, la Banca d’Italia non è più stata obbligata ad acquistare in via residuale i titoli del debito pubblico italiano non venduti in asta ai privati: un fatto che segna l’inizio della perdita del potere di mantenere i tassi d’interesse al livello desiderato da parte del Tesoro. Da quel momento la spesa per interessi sul debito pubblico esplode.
Si vedano ad esempio:
http://www.youtube.com/watch?v=FGZZ4s2udSM
http://memmt.info/site/dove-e-andato-a-finire-il-risparmio-delle-famiglie-italiane/
 

21. La flessibilità e il contenimento salariale migliorano la competitività del Paese


"Senti, sei proprio sicuro che sia questa la nuova frontiera del lavoro?"

 

FALSO!!!

 

La crescente ricerca di nuovi mercati su cui concorrere, tanto cara alla logica di accumulazione indiscriminata neomercantile e neoliberista, va inevitabilmente a riflettersi sul mondo del lavoro. Ciò non solo attraverso una moderazione salariale al limite della sopravvivenza, ma anche attraverso una ricerca di “flessibilità competitiva” giustificata da esigenze di “eccessivo costo del lavoro”.

Tutti noi quindi sentiamo continuamente ripetere, quasi come un mantra, che “il mercato del lavoro necessita di riforme strutturali che favoriscano da un lato la flessibilità attraverso la deregulation” (cioè l’eliminazione di vincoli legislativi) al solo scopo di contribuire ad una maggiore competività del sistema Paese.

Le politiche economiche attuali, inaugurate in Italia dal governo tecnocratico Monti-Fornero, fondano infatti la loro azione su queste due idee di stampo neoclassico-monetarista:

1) se si pagano troppi stipendi, cioè se si eliminano tutti i disoccupati, allora arriva l’inflazione, cioè ci saranno troppi soldi in giro e il prezzo delle merci salirà troppo e sempre di più;

2) se si abbassano gli stipendi le aziende assumeranno di più.

Ma per abbassare gli stipendi bisogna che sia lo Stato ad abbassare/contenere gli stipendi pubblici, per creare un meccanismo di contenimento/riduzione a cascata (teorema dei primi del Novecento dell’economista inglese Cecil Pigou).

In realtà le analisi che si ricavano dalla lettura del “Rapporto sulla competitività dei Paesi nel mondo”2  ci offrono indicazioni diametralmente opposte. Dalle pagelle agli Stati emerge che tra i paesi più competitivi al mondo ci sono la Svizzera (primo posto), la Svezia (terzo posto), la Finlandia (quarto posto) e la Germania (sesto posto). Paradossalmente quegli stessi Paesi che, nello stesso rapporto, presentano scarsa flessibilità del lavoro, “mercato del lavoro troppo regolamentato”, troppa burocrazia ed inefficienze.

Le tutele e i diritti presenti nei suddetti Paesi sono reputati eccessivi, percepiti come ostacoli ad investire e come fattori che pregiudicano le vendite all’estero ("the most problematic factors for doing business").

In base al teorema neoclassico, quindi, il Word Economics Forum Global Competitiveness Index avrebbe dovuto bocciare la competitività dei suddetti Paesi perché afflitti, peraltro, dagli stessi malanni dell’Italia che, a sua volta, si colloca, sempre nella stessa classifica, al 43° posto su 193 paesi, dietro Tunisia e Barbados.

La suddetta analisi dimostra, oltre ogni ragionevole dubbio, che la rigidità del mercato del lavoro come causa primaria di perdita di competitività è una pura menzogna, utilizzata ad arte per concretizzare, invece, altri obiettivi non espressamente palesati, come deflazionare l’economia italiana devastando i salari, quindi i consumi, quindi le imprese, per regalare agli investitori internazionali (tedeschi prima di tutto) migliaia di nostre imprese di prestigio con cui fare shopping fortemente sottocosto: le cosiddette "privatizzazioni", non a caso salutate dall'attuale primo ministro Letta come un grande traguardo. Nel frattempo devastando il miracolo dell’economia produttiva italiana.

Le cause del malessere italico vanno ricercate altrove, proprio dietro a quei meccanismi infernali di recessione/deflazione che, con lo spauracchio della scarsa competitivtà (shock therapy), impongono l’adozione di linee politiche di austerità neoliberiste.


(2) Rapporto Global Competitiveness Index del World Economic Forum di Davos (massima assise mondiale della finanza e dell’industria).
 


 

Fonte:

www.scribd.com/doc/106392215/FALSIMITI