COSA SUCCEDE
SE L'ITALIA ESCE DALL'EURO?
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Contrariamente all’opinione diffusa dai media, il recesso dall’eurozona appare come la
scelta ottimale per il Paese. Ragioni economiche e politiche impellenti
inducono a dover pensare al più presto ad una “exit strategy” unilaterale dall’euro (da
noi delineata qui).
Indispensabile è
tuttavia la valutazione dei costi e dei
benefici di un’uscita dell’Italia dall’Eurozona, al fine di capire se i
secondi superino i primi.
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I
CONTRACCOLPI DELL'USCITA DALL'EURO
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I fattori che
potrebbero concretamente arrecare danni all'economia del Paese
sono legati essenzialmente alle reazioni dovute al
mutato quadro geopolitico: gli altri Paesi potrebbero
decidere di determinare diversamente i loro rapporti con il nostro Paese. Bisogna
però sempre tenere bene a mente che per uno Stato come l’Italia (seconda in termini di
risparmio privato a livello mondiale, e il secondo paese più industrializzato
d’Europa, ex G7), questo è estremamente
improbabile.
Esaminiamo
tuttavia le principali criticità che potrebbero
determinarsi in caso di uscita dall'euro:
- Una potenziale reazione dei mercati finanziari potrebbe essere l’isolamento nei mercati di capitali,
attuato mediante l’esclusione degli asset
italiani dai portafogli degli investitori internazionali, in
maniera simile a quanto avvenuto per l’Argentina. Questa ipotesi, tuttavia, non
è razionale: i mercati troverebbero
profittevole investire in un Paese in ripresa - come potrebbe essere il nostro
successivamente all’uscita; e inoltre non tiene conto del fatto che il
principale fattore di depressione del prezzo dei nostri asset è proprio il crollo della domanda dovuto alle
misure di austerità imposteci dalla Troika. Gli investimenti nelle economie sane non declinano, come insegna il
caso della Norvegia, che, pur mantenendo un ampio
controllo pubblico su asset
strategici, come le imprese che gestiscono le fonti energetiche, gode di una
relativa tranquillità economica.
- Una diretta conseguenza di questo “isolamento” potrebbe essere la diminuzione della domanda europea di
beni e servizi, di cui beneficiano molte imprese esportatrici del nostro
Paese. Questo
appare in contrasto, tuttavia, con una caratteristica importante della
struttura dell’export italiano, rilevata da documenti ufficiali della
Commissione Europea[1]:
il nostro export presenta la maggiore elasticità al tasso di cambio fra i Paesi
membri (172% circa) e la maggiore correlazione con la domanda estera (108%), a
dimostrazione del fatto che è soprattutto la
competitività dei prezzi a guidare le
nostre esportazioni: e questa competitività è precisamente quella
che è stata maggiormente penalizzata
dall'ingresso nell'euro.
- Diversa la situazione
per quel che riguarda l'indebitamento privato: aziende e famiglie non
potrebbero, con la nuova lira, onorare il debito interno ed esterno essendo
indebitate in euro. Il debito privato può o essere ripagato in euro (qualora esso sopravviva ad una defezione italiana) tramite il semplice cambio
valutario (ricordiamoci che la nuova moneta partirebbe molto probabilmente da
una parità) o anche rinegoziato tra le parti contraenti. In caso di insuccesso,
il debitore privato
sperimenterebbe una bancarotta. Del resto il ricambio nelle imprese c'è e ci
sarà sempre: si chiama "concorrenza".
- Ciò che è fondamentale
a questo punto, come insegnano gli economisti MMT, è ammortizzare
l'impatto della crisi mediante una politica pubblica che promuova la piena
occupazione: finché tutti coloro che vogliono un posto di lavoro riescono
ad ottenerlo, con un salario che permetta loro di vivere, l’economia può
tornare a risollevarsi. E quando si ha una propria valuta, è sempre possibile promuovere la piena
occupazione.
Si obietterà: il
problema sono gli anziani, i malati, gli
handicappati, gli "improduttivi". Invece no, non è un problema:
come ricorda Warren Mosler[1], l'1% della popolazione è sufficiente per coltivare
ciò che serve per l'alimentazione di tutti, meno del 10% della popolazione
produce tutto quello che serve per il restante 90%. Nulla vieta che il resto
della popolazione si occupi di anziani, invalidi, malati terminali ecc. Questo
ovviamente potrebbe portare ad un’espansione della spesa pubblica, ma in una
situazione di sovranità monetaria la spesa pubblica non crea alcun tipo di
"debito", ed inoltre, se indirizzata alla creazione della piena
occupazione, non genera neppure inflazione, e non è quindi un problema.
Ci piace citare a questo proposito una frase
dello stesso Warren Mosler: "Al mondo ci sono molte più cose da fare di
quante persone ci siano per farle: e la nostra politica pubblica è riuscita a
creare una situazione in cui il 20% di noi non lavora!"
- Una preoccupazione che viene spesso espressa è quella riguardante i tassi di interesse: da chi sarebbero
decisi, se si esce dall'euro? La risposta è piuttosto semplice: con la nuova
lira si tornerebbe al sistema antecedente rispetto al '92, in cui sarebbe la
Banca Centrale, in questo caso la Banca
d'Italia, a fissare il tasso di interesse concordandolo con il Tesoro. Il
consiglio di Mosler è quello di lasciare il tasso interbancario a zero, come avviene in Giappone già da
vent'anni: qui il rapporto debito/Pil è al 240%, con la più bassa inflazione
del mondo e la valuta più forte del mondo. Il loro tasso senza rischio è molto
vicino allo zero. È evidente perciò che una
politica di tassi di interesse zero non causa inflazione. Nel caso dei titoli di Stato, invece, è il
mercato a fissare i tassi di interesse. Quando però si ha una propria valuta, i tassi
di interesse sui titoli riflettono il livello al quale si ritiene che la Banca
Centrale fissi il proprio tasso d’interesse. In Giappone il tasso di interesse
dei titoli a 10 anni, non a caso, è molto basso: si sa infatti che non c'è
rischio di default, semplicemente perché con una valuta sovrana non esiste
questo rischio.
- È tuttavia importante
comprendere che, in condizioni di sovranità monetaria, il governo non è affatto tenuto ad emettere titoli di Stato. Un
titolo di Stato è in pratica una sorta di conto
di risparmio presso la Banca Centrale. Tuttavia, quando si ha una propria
valuta e una politica basata su un tasso di cambio variabile, non c'è motivo
per cui debbano esistere due tipi diversi di conti, e quindi non c'è motivo per
cui debbano esistere dei titoli.
- Infine, per quanto
riguarda i tassi di interesse sui
prestiti privati, ad esempio sui mutui, con una politica basata sul tasso
zero i tassi sui mutui sarebbero di
circa il 2,5-3%: più o meno come in Giappone. Ovviamente, infatti, un
banchiere che lavora sui mutui si trova in concorrenza con le altre banche:
alzare i tassi sui mutui da parte di una banca sarebbe quindi una mossa
sconsiderata. Potrebbe cambiarli il governo: ma il governo, nel fare ciò,
dovrebbe ritenere di soddisfare in tal modo un qualche obiettivo di politica
pubblica, e non si vede proprio quale potrebbe essere.
- Si obietta spesso, infine, che
le Banche Centrali sono private, e che quindi esiste uno scollamento tra
l'interesse pubblico ed il loro operato, tale da rendere di fatto utopica la prospettiva della sovranità monetaria. Questa obiezione parte da una errata concezione di
“sovranità” ed afferisce ad un pensiero economico estremamente distante dalla
realtà, che in alcuni elementi fa riferimento ad una sovranità “popolare” della
moneta che non ha alcun senso di per sé. La moneta è uno strumento
pubblico PER il popolo. Tale problema, quindi,
è di natura politica,
non economica.
Se si sceglie di agire diversamente, la responsabilità della svendita della sovranità è esclusivamente della
classe politica.
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I
VANTAGGI DELL'USCITA DALL'EURO
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A
fronte dei contraccolpi sopra valutati, controllabili
con un'adeguata politica economica, i vantaggi sarebbero
sostanzialmente due, complementari e di enorme importanza:
a) Riconquistare la
sovranità monetaria
Il vantaggio
principale derivante dall’uscita è naturalmente la riconquista della sovranità monetaria. Come illustrato non
solo dai
teorici della Modern Money Theory, ma anche da economisti eterodossi italiani come Sergio Cesaratto[2], uno Stato a
moneta sovrana non può incorrere in un default involontario sul proprio debito.
Ogni promessa di pagamento che lo Stato ha contratto con la moneta della quale
è monopolista emittente, per esempio, relativamente ai propri titoli del debito
pubblico, è appunto un impegno a pagare in quella stessa moneta, che può
emettere liberamente in maniera potenzialmente illimitata[3].
Oltre
tutto, una
condizione di sovranità monetaria consente agli Stati di non dover più reperire fonti di finanziamento per le loro spese prima delle loro decisioni sulle
spese stesse. Ciò costituisce il fondamento di tutta una serie di scelte politiche a
disposizione del Paese, in funzione dell’obiettivo della piena occupazione[4].
b) Promuovere la piena occupazione
Il processo di uscita dall’Eurozona è un
passaggio necessario ma non sufficiente: è essenziale che
qualunque governo operi questo passaggio manifesti un impegno volto
al perseguimento di politiche di sviluppo interno, votate alla piena occupazione
e ad un’equa redistribuzione del reddito.
La netta
superiorità in tal senso di un
sistema monetario sovrano, con un tasso di cambio non fisso, sta nella maggiore
indipendenza di cui può disporre il governo: la Banca Centrale nazionale non è
più costretta ad acquistare dei
quantitativi predefiniti di valuta estera, ma può gestire liberamente il suo portafoglio di riserve valutarie
ed è sempre in grado di effettuare pagamenti denominati nella valuta
domestica.
Ne consegue che l’architettura di
quella che chiameremo "newlira" dovrebbe essere
improntata innanzitutto al conseguimento dell’obiettivo della piena
occupazione, il quale deve assumere priorità massima, e della stabilità dei prezzi, secondo l’approccio che Abba Lerner ha definito finanza funzionale e che abbiamo
ampiamente descritto qui.
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