Punto 5
Pro
e contro dell'uscita del nostro Paese dall'euro
(include
il programma
di "Job Guarantee").
1)
La risposta di Economia 5 Stelle
2)
La risposta di Epic (Economia per i cittadini)
N.B.: i documenti
completi, scaricabili, sono reperibili qui:
http://economiaepotere.forumfree.it/
La risposta di Epic (Economia per i cittadini)
Premessa
Come abbiamo già
accennato in precedenza, contrariamente all’opinione diffusa dai media, il recesso dall’eurozona appare come la
scelta ottimale per il Paese. Ragioni economiche e politiche impellenti
inducono a dover pensare al più presto ad una “exit strategy” . Al punto 2 abbiamo descritto il
processo da mettere in atto in caso di uscita unilaterale dall’euro (“exit
strategy”).
Indispensabile è
tuttavia la valutazione dei costi e dei
benefici di un’uscita dell’Italia dall’Eurozona, al fine di capire se i
secondi superino i primi.
I - I contro dell’uscita dall’euro
Possibili contraccolpi sull’economia italiana
La possibilità di
tornare ad armonizzare le proprie politiche monetarie e fiscali garantisce, di
per sé, uno spazio di manovra talmente ampio a livello di politiche pubbliche
da rendere i potenziali benefici
enormemente superiori ai costi attesi.
I fattori che
potrebbero concretamente arrecare danni alla
congiuntura economica del Paese, in realtà, sono legati alle reazioni dovute al
mutato quadro geopolitico. Tali situazioni potrebbero sussistere nella misura
in cui gli altri Paesi potrebbero
poi decidere di determinare i loro rapporti con il nostro Paese, tenendo, però,
sempre bene a mente che per uno Stato come l’Italia (seconda in termini di
risparmio privato a livello mondiale, e il secondo paese più industrializzato
d’Europa, ex G7), ciò è estremamente
improbabile.
- Una potenziale reazione dei mercati finanziari potrebbe essere l’isolamento nei mercati di capitali,
attuato mediante l’esclusione degli asset
italiani dalle decisioni di portafoglio degli investitori internazionali, in
maniera simile a quanto avvenuto per l’Argentina. Questa ipotesi, tuttavia, non
è sorretta da assunzioni razionali circa il comportamento dei mercati, che troverebbero
profittevole investire in un Paese in ripresa - come potrebbe essere il nostro
successivamente all’uscita; e inoltre non tiene conto del fatto che il
principale fattore di depressione del prezzo dei nostri asset è proprio il crollo della domanda aggregata dovuto alle
misure di austerità imposteci dalla Troika. Gli investimenti nelle economie sane non declinano, come insegna il
caso di Paesi scandinavi tra i quali la Norvegia, che, pur mantenendo un ampio
controllo pubblico su asset
strategici come le imprese che gestiscono le fonti energetiche, gode di una
relativa tranquillità economica.
- Una diretta conseguenza di questo “isolamento” potrebbe essere la contrazione della domanda europea di
beni e servizi, di cui beneficiano molte imprese esportatrici del nostro
Paese, con esiti potenzialmente negativi sulla profittabilità delle stesse. Ciò
appare in contrasto, tuttavia, con una caratteristica importante della nostra
struttura dell’export, rilevata peraltro da documenti ufficiali della
Commissione Europea[1]:
il nostro export presenta la maggiore elasticità al tasso di cambio fra i Paesi
membri (172% circa) e la maggiore correlazione con la domanda estera (108%), a
dimostrazione del fatto che è soprattutto la
competitività di prezzo - depressa dall’appartenenza all’UME - a guidare le
nostre esportazioni.
- Diversa la situazione
per quel che riguarda l'indebitamento privato: aziende e famiglie non
potrebbero, con la nuova lira, onorare il debito interno ed esterno essendo
indebitate in euro. Il debito privato può o essere ripagato in euro (qualora lo
stesso sopravviva ad una defezione italiana) tramite il semplice cambio
valutario (ricordiamoci che la moneta in sé partirebbe molto probabilmente da
una parità) o anche rinegoziato tra le parti contraenti. In caso di insuccesso,
sperimenterebbe una bancarotta. Del resto il ricambio nelle imprese c'è e ci
sarà sempre, si chiama "concorrenza".
Ciò che è fondamentale
a questo punto, per gli economisti MMT, è ammortizzare
l'impatto della crisi mediante una politica pubblica che promuova la piena
occupazione: finché tutti coloro che vogliono un posto di lavoro riescono
ad ottenerlo, con un salario che permetta loro di vivere, l’economia può
tornare a risollevarsi. E quando si ha una propria valuta, è sempre possibile promuovere la piena
occupazione. Si obietterà: il
problema sono gli anziani, i malati, gli
handicappati, gli "improduttivi". Invece no, non è un problema:
come ricorda ancora Mosler, l'1% della popolazione è sufficiente per coltivare
ciò che serve per l'alimentazione di tutti, meno del 10% della popolazione
produce tutto quello che serve per il restante 90%. Nulla vieta che il resto
della popolazione si occupi di anziani, invalidi, malati terminali ecc. Questo
ovviamente potrebbe portare ad un’espansione della spesa pubblica, ma in una
situazione di sovranità monetaria la spesa pubblica non crea alcun tipo di
"debito", ed inoltre, se indirizzata alla creazione della piena
occupazione, non genera neppure inflazione, e non è quindi un problema. Al mondo ci sono molte più cose da fare di
quante persone ci siano per farle: e la nostra politica pubblica è riuscita a
creare una situazione in cui il 20% di noi non lavora!
- Una preoccupazione che viene spesso espressa è quella riguardante i tassi di interesse: da chi sarebbero
decisi, se si esce dall'euro? La risposta è piuttosto semplice: con la nuova
lira si tornerebbe al sistema antecedente rispetto al ‘92, in cui sarebbe la
Banca Centrale, in questo caso la Banca
d'Italia, a fissare il tasso di interesse concordandolo con il Tesoro. Il
consiglio di Mosler è quello di lasciare il tasso interbancario a zero, come avviene in Giappone già da
vent'anni: qui il rapporto debito/Pil è al 240%, con la più bassa inflazione
del mondo e la valuta più forte del mondo. Il loro tasso senza rischio è molto
vicino allo zero. È evidente perciò che una
politica di tassi di interesse zero non causa inflazione.
Nel caso dei titoli di Stato, invece, è il
mercato a fissare i tassi di interesse. Quando però si ha una propria valuta, i tassi
di interesse sui titoli riflettono il livello al quale si ritiene che la Banca
Centrale fissi il proprio tasso d’interesse. In Giappone il tasso di interesse
dei titoli a 10 anni, non a caso, è molto basso: si sa infatti che non c'è
rischio di default, semplicemente perché con una valuta sovrana non esiste
questo rischio. È tuttavia importante
comprendere che, in condizioni di sovranità monetaria, il governo non è affatto tenuto ad emettere titoli di Stato. Un
titolo di Stato è in pratica una sorta di conto
di risparmio presso la Banca Centrale. Tuttavia, quando si ha una propria
valuta e una politica basata su un tasso di cambio variabile, non c'è motivo
per cui debbano esistere due tipi diversi di conti, e quindi non c'è motivo per
cui debbano esistere dei titoli. Infine, per quanto
riguarda i tassi di interesse sui
prestiti privati, ad esempio sui mutui, con una politica basata sul tasso
zero i tassi sui mutui sarebbero di
circa il 2,5-3%: più o meno come in Giappone. Ovviamente, infatti, un
banchiere che lavora sui mutui si trova in concorrenza con le altre banche:
alzare i tassi sui mutui da parte di una banca sarebbe quindi una mossa
sconsiderata. Potrebbe cambiarli il governo: ma il governo, nel fare ciò,
dovrebbe ritenere di soddisfare in tal modo un qualche obiettivo di politica
pubblica, e non si vede proprio quale potrebbe essere.
- Si obietta spesso, infine, che
le Banche Centrali sono private, e che quindi esiste uno scollamento tra
l'interesse pubblico ed il loro operato, tale da rendere di fatto utopica la prospettiva della sovranità monetaria. Questa obiezione parte da una errata concezione di
“sovranità” ed afferisce ad un pensiero economico estremamente distante dalla
realtà, che in alcuni elementi fa riferimento ad una sovranità “popolare” della
moneta che non ha alcun senso di per sé. La moneta rimane uno strumento
pubblico PER il popolo, come precedentemente affermato. Tale problema, quindi,
è semplicemente un problema politico,
non economico. Se quindi si sceglie di agire diversamente, la responsabilità della svendita della sovranità è esclusivamente della
classe politica.
II - I vantaggi dell’uscita
a) Riacquistare la
sovranità monetaria
Il vantaggio
principale derivante dall’uscita è naturalmente il riacquisto della sovranità monetaria. Come illustrato dai
teorici della Modern Money Theory e da economisti eterodossi italiani come Sergio Cesaratto[2], uno Stato a
moneta sovrana non può incorrere in un default involontario sul proprio debito.
Ogni promessa di pagamento che lo Stato ha contratto con la moneta della quale
è monopolista emittente, per esempio, relativamente ai propri titoli del debito
pubblico, è appunto un impegno a pagare in quella stessa moneta, che può
emettere liberamente in maniera potenzialmente illimitata[3].
Oltretutto, una
condizione di sovranità monetaria consente agli Stati di non dover più reperire fonti di finanziamento per le loro spese prima delle loro decisioni sulle
stesse. Ciò costituisce il fondamento di un novero di scelte politiche a
disposizione del Paese, in funzione dell’obiettivo della piena occupazione[4].
Tratteremo in maniera
più completa tale argomento di seguito.
b) Uscire dall’euro per la piena occupazione
Determinare un quadro
sinottico che descriva il progetto euro, nelle sue radici più profonde, ci fa
capire che l’idea stessa di determinarne una continuità negli intenti, o meglio
nei falsi-intenti iniziali che ne hanno poi determinato una ampia adesione ad
ogni livello nella società, oggi, è quantomeno utopistico e irrealizzabile. Ma
se siamo consci di ciò, dobbiamo anche determinare una struttura su cui poggiare un post-euro,
che coincide quindi il ritorno ad una valuta nazionale, che chiameremo per
semplicità “newlira”.
Assunti di base del modello
Le considerazioni che
qui di seguito verranno effettuate tratteranno l’argomento valutario, quindi la “moneta”, nella natura che oggi le
viene universalmente riconosciuta di fatto, cioè quella di segno, di semplice
simbolo che viene utilizzato per determinare l’elemento fondante delle economie
capitalistiche moderne: la produzione per la determinazione
dello scambio e non, quindi, dello scambio di per sé[5].
La moneta moderna ha
una caratteristica distintiva rispetto alle monete impiegate in regime di
convertibilità aurea (gold standard e
similari): essa è fiat, ovvero non ha un controvalore in oro o altro metallo
prezioso che ne determini il valore intrinseco. Ne consegue che la moneta non è
di per sé una risorsa scarsa[6],
in quanto può essere creata senza
vincoli quantitativi da chi ne detiene il monopolio di emissione; e
pertanto essa acquista il suo valore
solo per via estrinseca, cioè circolando fra gli agenti economici e
governando la produzione di beni e servizi.
Questa è la prima delle tre condizioni che devono
verificarsi affinché uno Stato possa disporre di sovranità monetaria,
mentre le altre due sono: essere di
proprietà dello Stato stesso, ed avere un tasso di cambio flessibile nei
confronti delle altre valute; è considerato cambio fisso anche il caso in
cui si scelga di agganciare volontariamente la propria valuta ad altre
(esempio: la parità peso-dollaro realizzata in Argentina prima del default). La
ratio sottostante a quest’ultimo
requisito è che, operativamente, un
tasso di cambio fisso coincide con una parità aurea della moneta, nella
misura in cui esiste un’equivalenza quantitativa che vincola l’ammontare
complessivo della stessa.
L’analisi della natura
della moneta non è qualcosa di disgiunto
dalla ricerca di soluzioni al problema della disoccupazione, ma anzi ne è
il presupposto naturale. Non a caso il titolo dell’opera più famosa di John Maynard Keynes è proprio “Teoria generale dell’occupazione,
dell’interesse e della moneta”, ad indicare come le dimensioni enucleate
siano strettamente correlate. Al contrario, i modelli mainstream che dominano sia il mondo accademico che quello
divulgativo sono fondati sull’idea
neoclassica secondo cui la moneta è neutrale:
in quest’ottica i fenomeni monetari hanno un’influenza limitata - se non nulla
- sulle dinamiche reali, e in ogni economia capitalistica la piena occupazione
e l’ottima distribuzione delle risorse sono sempre presenti a meno di
imperfezioni dei mercati, che vanno accuratamente rimosse per tornare allo
stadio iniziale.
La posizione post-keynesiana (con tutti i
suoi successivi sviluppi) è invece fondata sull’idea che la piena occupazione e la distribuzione ottimale delle risorse
non esistano naturalmente nelle economie, ma che debbano essere create delle istituzioni, opportunamente
regolate, in grado di realizzare questi obiettivi. I mercati, pertanto, sono
istituzioni che non possono naturalmente riuscire a conseguire gli stessi, ed è lo Stato che deve operare affinché essi
siano realizzati: regolazione ed intervento pubblico appaiono pertanto
imprescindibili, ed il secondo in particolare può essere davvero efficace solo
attraverso un adeguata disponibilità di fondi.
Banca centrale e sistema monetario “newlira”
Un sistema monetario
alternativo all’attuale sistema euro deve poggiare necessariamente sulle
caratteristiche intrinseche di tutti i sistemi monetari caratterizzati dalla
moneta fiat, come da descrizione
precedentemente effettuata. Torneremmo,
quindi, ad un meccanismo simile a quello della lira che precede quello attuale,
con l’ulteriore consapevolezza del fatto che non esiste alcun rischio
d’insolvenza per uno Stato con sovranità monetaria.
In questa ottica, la
banca nazionale (BC)[7]
dovrebbe condurre politiche monetarie armonizzate rispetto alle politiche
fiscali scelte dallo Stato.
Nell’ambito
dell’espletamento delle proprie funzioni, quindi, la BC diventerebbe come un vero e proprio “direttore d’orchestra”
in grado di determinare un miglior svolgimento delle operazioni nei mercati
valutari e della moneta nazionale di per sé.
Tale orientamento va
quindi posto fortemente in contrasto con
ciò che la letteratura mainstream, ad
oggi, propone come dogma portante: l’indipendenza[8] della BC e
quindi della politica monetaria. Tale assunto illogico è dato dalla volontà
di far sì che i modelli scientifici usati maggiormente oggi possano essere resi
realmente operativi. Questo tipo di operazioni ricalcano ciò che il professor William F. Mitchell definisce come la
volontà che modelli scientificamente giusti vengano usati per un modo reale che
gli stessi modelli poi non descrivono, o comunque che non rappresentano[9].
L’indipendenza della BC è oggi giustificata da un
duplice ordine di motivazioni:
-
ideologico, nella misura in cui
si ritiene che attraverso il consolidamento fra BC e Tesoro i governi possano
“corrompere” il proprio elettorato mediante indiscriminate emissioni monetarie
volte a mantenerlo fedele ed improduttivo (sull’onta di Fredrich Hayek, Jacques
Rueff e molti altri ideologi liberisti);
- economico, poiché si ritiene che la possibilità di finanziarsi illimitatamente
presso la BC porti ad aumenti indesiderati dell’inflazione[10]; un
background teorico che si rifà alla teoria quantitativa della moneta di
neoclassica memoria.
Entrambe le motivazioni addotte possono essere
confutate.
La ragione ideologica infatti
s’inserisce nel contesto di un forte pregiudizio anti-statale che caratterizza
la filosofia politica liberista, ma non tiene conto di una questione
essenzialmente democratica: una BC indipendente non è sottoposta al controllo
democratico degli elettori (attraverso la cooperazione con il governo), ma le
sue operazioni mutano profondamente il quadro macroeconomico. Per tale ragione,
i danni provocati da politiche monetarie errate hanno in questo caso
l’aggravante di essere sostanzialmente antidemocratici, non decisi da un
governo democraticamente eletto[11].
La ragione economica è altresì fallace, in
quanto fondata su una teoria erronea: come ampiamente dimostrato da analisi
empiriche e dalla storia, non è l’aumento della quantità di moneta in
circolazione a determinare incrementi nel livello dei prezzi[12],
ma vale la relazione causale opposta. L’inflazione
è un fenomeno che ha per oggetto i prezzi, i quali dipendono dalle reciproche
condizioni di domanda e di offerta: è uno squilibrio fra esse che porta ad
incrementi del livello dei prezzi, e non la quantità di moneta emessa[13].
In particolare, nel caso della spesa pubblica effettuata in deficit, essa potrà
essere concretamente inflazionaria soltanto se la situazione di partenza
contempla una piena occupazione dei lavoratori ed un pieno impiego dei fattori
produttivi.
Vi è un ulteriore
vantaggio nell’interruzione del “divorzio” fra BC e Tesoro che è stato operato
anche nel nostro Paese, ovvero la possibilità per la BC di determinare univocamente i tassi d’interesse sul debito pubblico;
una facoltà che è al momento deputata ad un’istituzione indipendente come la
BCE, la quale interviene solo in via occasionale e sporadica per livellare i
tassi.
Nella realtà operativa
dei sistemi monetari infatti il tasso d’interesse “naturale” in assenza di
interventi della BC tende a zero[14],
poiché i deficit pubblici, generando all’interno del sistema bancario un
eccesso di riserve rispetto alle necessità di copertura delle banche,
effettuano una pressione al ribasso sui tassi d’interesse overnight a cui le riserve stesse vengono scambiate. A quel punto
l’intervento della BC, mediante operazioni di mercato aperto, consente di
imporre un tetto minimo alla caduta dei tassi, ed è il grado di intervento in
tal senso che costituisce la modalità in cui la BC è in grado di fissare il
tasso d’interesse.
Il trait
d’union così descritto è però inesistente all’interno dell’Eurozona: la spesa in deficit
dei vari Stati membri non può beneficiare del finanziamento monetario
proveniente dalla BCE in virtù dell’art. 123 TFUE, e di conseguenza non può
assicurare un livello adatto di riserve al sistema bancario europeo, il quale
deve necessariamente ricorrere a prestiti erogati dalla BCE stessa.
Un sistema monetario
moderno
Fig. 1: Il sistema monetario moderno
La Fig. 1 mostra
graficamente quali siano le relazioni fra Tesoro, Banca Centrale, Banche
commerciali, famiglie ed imprese all’interno di un sistema monetario moderno.
Pertanto, quando il governo vuole spendere
emette obbligazioni - fondamentalmente degli
“Io-Ti-Devo” con interessi,
versati al titolare degli stessi - e le offre in vendita alle banche
commerciali sul mercato aperto. Poi spende
il denaro, in favore del settore privato, tramite ingenti trasferimenti
bancari elettronici mediante banca centrale (la “banca delle banche”, presso la
quale le banche commerciali devono mantenere le loro riserve) nei conti di
riserva delle banche dei destinatari di quella spesa. In seguito alla spesa del
governo, queste banche dispongono di riserve in eccesso, e non intendono
mantenerle in questo stato, perché la banca centrale paga poco o nessun
interesse sulle riserve stesse. Queste peraltro non possono essere prestate ad
altre banche, perché anch’esse si trovano ad avere riserve in eccesso. Non le
possono, inoltre, prestare ai clienti perché costoro sono già stati tutti
serviti - nessun direttore di banca lascerà mai un cliente in attesa di un
prestito a causa di una carenza di riserve. Così le banche acquistano il
solo investimento fruttifero e sicuro a loro disposizione: le obbligazioni che
il governo ha messo in vendita per prendere in prestito i soldi da spendere, in primis. Non importa in quale ordine
ciò avvienga - il risultato finale è lo stesso: i titoli del debito pubblico
generano la propria domanda semplicemente poiché sono l'unica alternativa
profittevole alle riserve in eccesso. Ciò significa che solo il governo può
creare e distruggere risparmi, al netto del debito, dal settore privato. In
sostanza, il governo non ha mai bisogno di preoccuparsi per il
"finanziamento del deficit" in un sistema monetario sovrano: i
deficit si autofinanziano. A differenza dei governi che hanno ceduto il
controllo della valuta ad un organismo esterno - come ad esempio quelli
dell’Eurozona – i governi con sovranità
monetaria potrebbero e dovrebbero prendere decisioni di spesa basate
soltanto sui bisogni dei loro cittadini - mai su concezioni antiquate ed
empiricamente indimostrabili come la necessità della responsabilità fiscale.
Ne consegue che la
risposta adeguata di un governo ad una crisi economica (quando il crollo della
domanda aggregata sta uccidendo posti di lavoro, mentre ognuno perpetua il
ciclo provando a risparmiare più denaro) è spendere fino a soddisfare la
domanda di risparmi netti proveniente dal settore privato; una condizione che
va di pari passo con la piena occupazione. Si tratta, in definitiva, di una concezione
che rifiuta alla radice le politiche di austerità, le quali deprimono
ulteriormente la domanda aggregata e rendono impossibile una vera e propria
uscita dalla crisi.
Uscire dall’euro non basta:
Finanza funzionale e pieno
impiego
Il processo di uscita dall’Eurozona,
sommariamente delineato al punto 2 assieme alle sue principali criticità, è un
passaggio necessario ma non sufficiente per ripristinare un sano livello di
occupazione, redditi e domanda all’interno del nostro Paese: è essenziale che
qualunque governo operi questo passaggio manifesti un impegno di lungo periodo
al perseguimento di politiche di sviluppo interno votate alla piena occupazione
e ad un’equa redistribuzione del reddito.
La superiorità di un
sistema monetario sovrano, con un tasso di cambio non fisso, sta nella maggiore
indipendenza di cui può disporre il governo che la implementa; grazie al fatto
che la Banca Centrale nazionale non deve necessariamente acquistare dei
quantitativi predefiniti di valuta estera per mantenere in essere l’aggancio
valutario, ma può gestire liberamente il suo portafoglio di riserve valutarie
estere ed è sempre in grado di effettuare pagamenti denominati nella valuta
domestica. Ne consegue che l’architettura della newlira dovrebbe essere
improntata innanzitutto alla cura delle politiche domestiche, al fine di
effettuare decisioni di spesa incentrate sull’obiettivo della piena
occupazione, il quale deve assumere priorità massima. Obiettivi di tipo
quantitativo non dovrebbero riguardare il livello del rapporto debito/PIL né
l’entità di un eventuale deficit commerciale con l’estero: da un punto di vista
macroeconomico i deficit commerciali corrispondono a benefici netti in termini
reali (poiché il Paese ottiene più merci di quante ne consegna al resto del
mondo, e pertanto il “costo” reale dell’import è inferiore[15]). I
potenziali effetti indesiderabili sull’occupazione interna sarebbero in ogni
caso contrastati da una politica attivamente impegnata nel raggiungimento della
piena occupazione e della stabilità dei prezzi, secondo l’approccio che Abba Lerner ha definito finanza funzionale e che vedremo nella
sezione seguente.
Finanza Funzionale e Pieno Impiego[16]
Come abbiamo avuto
modo di appurare nelle sezioni precedenti, in un Paese che opera con la propria
valuta fiat, legale, non convertibile
(né in oro né nella valuta di un altro Paese), il governo non si deve necessariamente comportare come una famiglia:
può usare il proprio potere in maniera diversa, ed è questo appunto che viene
definito finanza funzionale. I
lavori di Lerner sul tema furono scritti proprio quando il mondo si trovava a
combattere i problemi della grande depressione. Lerner, come anche Keynes,
comprese che la disoccupazione era caratteristica normale di qualunque economia
capitalista che utilizzi la moneta: non era perciò un fenomeno che i Paesi
devono gestire soltanto in periodi di depressione ma anche in periodi di
normalità, in quanto l’economia opera sempre con un certo livello di
disoccupazione. Lerner aveva una concezione del sistema economico profondamente
diversa da quella degli economisti classici, secondo i quali l’offerta crea una
sua propria domanda, i mercati tendono naturalmente alla piena occupazione e
che la caratteristica dei governi sia solo quella di intromettersi.
L’intervento del governo perciò non sarebbe necessario ma destabilizzante.
Quando si verifica qualcosa di negativo in ambito economico la migliore scelta
da parte del governo è farsi da parte, lasciar correre, lasciar fare, in quanto
i mercati sarebbero “auto correttivi”. Ne Lerner né Keynes condividevano questa
posizione: entrambi infatti capivano che le economie di mercato sono complesse
e le decisioni prese dai produttori sono diverse e non coordinate rispetto alle
decisioni prese dai consumatori, dagli stranieri, da altre aziende e dai
governi.
Lerner non pensava che
esistesse un meccanismo in grado di coordinare le decisioni relative alla spesa
di tutti noi con le decisioni relative alla produzione dell’industria e delle
aziende; in maniera tale da far funzionare l’economia in maniera sana, portando
alla piena occupazione per tutti. Al
contrario, tutte le economie di mercato seguono una ciclicità tale per cui
laddove vi siano periodi in cui la disoccupazione è bassa, ci si deve aspettare
in futuro delle flessioni del ciclo, caratterizzati da una disoccupazione
maggiore: a questo punto i governi devono rispondere alla situazione in un
determinato modo. Lerner, Keynes e la scuola della Modern Money Theory
rifiutano la nozione imperante in base alla quale tutti i problemi sono causati
dai lavoratori: il problema è invece la mancanza di posti di lavoro
sufficienti.
Prendiamo ad esempio
cento cani e seppelliamo 95 ossa in un campo, spiegando ai cani che il loro
compito è trovare le ossa. Lo scenario migliore possibile è che 90 cani trovino
le ossa e 5 no; è più probabile che alcuni cani però siano stati fortunati e ne
abbiano trovate di più, per cui il numero di cani che torna senza ossa potrebbe
essere per esempio di dieci o quindici. L’economista classico prenderebbe i
cani senza ossa e li formerebbe per permettere loro di trovare le ossa in
maniera più efficiente, ma il vero problema è che non ci sono abbastanza ossa
(fuor di metafora, non ci sono abbastanza posti di lavoro). Gli economisti
pensano che la disoccupazione sia inevitabile e addirittura benefica perché
serve a disciplinare il lavoratore, in quanto se si ha paura di perdere il
posto di lavoro si lavora di più e meglio. Pensano inoltre che vi sia una
contropartita, che il calo della disoccupazione può cioè portare ad un rischio
di inflazione e perciò sia preferibile mantenere un certo numero di persone non
occupate per impedire che i prezzi aumentino troppo rapidamente.
Nonostante l’obiettivo
programmatico principale dell’unica istituzione che dispone di sovranità
all’interno dell’Eurozona, ovvero la BCE, sia il contenimento dell’inflazione,
la disoccupazione costituisce un problema altrettanto cruciale per la società.
Essa comporta sia ingenti costi indiretti che diretti, questi ultimi ovvi in
quanto tutti coloro che non lavorano e non producono rappresentano uno spreco
dal punto di vista economico, una perdita di produzione per tutta la società, e
quindi un reddito che non viene prodotto. I costi indiretti sono molteplici. Se
si è disoccupati ci si sente esclusi dalla società, si tende a perdere le
proprie capacità, le proprie competenze, più dura la disoccupazione e meno
impiegabili si diventa. Le aziende non vogliono assumere persone disoccupate
già da mesi o, nel caso degli USA, da anni. La disoccupazione crea una serie di
danni psicologici generalizzati : la depressione, l’ansia, il numero dei
suicidi aumenta (un buon segnale per le case farmaceutiche che producono
antidepressivi e profittano da ciò). Nonostante la difficoltà nel misurare
quantitativamente tali costi, esistono alcuni studi nel merito. Nel 2011[17]
la Casa Bianca ha realizzato uno studio per capire quali fossero i costi della
disoccupazione di un giovane che non lavora e non studia. Aumenta il tasso di
criminalità, si perde l’assistenza sanitaria e quindi non si va dal medico fino
a che non si sta molto male, aumenta la spesa per i servizi sociali a causa
della compressione dei redditi. La Casa Bianca ha valutato che i costi di un
ragazzo disoccupato che non studia in America sono di 38000 $ l’anno.
Invece a quanto ammontano esattamente i costi diretti? William F. Mitchell[18]
ha stimato il costo giornaliero della disoccupazione negli USA, e ha concluso
gli Stati Uniti stanno sacrificando l’equivalente di un importo che va da 6 a
11 miliardi di $ al giorno, persi a causa dell’elevato livello di
disoccupazione. Quotidianamente il governo degli Stati Uniti tollera che
esistano 9,7 miliardi di $ di reddito perduto, proprio per non aver
implementato valide misure di creazione di posti di lavoro.
La risposta della
teoria economica mainstream al problema sarà la creazione di un ambiente
migliore per le aziende. Ma ciò per loro significa ridurre le tasse, diminuire
la regolamentazione: sarebbero queste le ragioni che veramente contano per le
aziende, e per cui gli imprenditori non investono e non assumono, deprimendo
l’occupazione.
Ma negli USA,
sondaggio dopo sondaggio, emerge un’opinione delle imprese secondo cui non sono
i livelli di tassazione elevati o l’eccessiva regolamentazione che trattengono
le stesse dall’assumere e investire di più, bensì il basso livello di vendite:
mancano i clienti. Le vendite creano posti di lavoro, le aziende assumono
quando dispongono di un’elevata domanda, non quando hanno gli sgravi fiscali,
non quando viene operata la deregulation!
Sono i clienti a creare le vendite, ma devono avere dei livelli adeguati di
reddito: il reddito crea spese e le spese creano a loro volta reddito per i
destinatari delle stesse. Poiché l’austerità fiscale (o la finanza “solida” come viene spesso definita)
comporta tagli alla spesa, e quindi dei redditi e delle vendite, la conseguenza
sarà una perdita massiccia di posti di lavoro.
Che cosa suggerisce Lerner? La disoccupazione
esiste perché non c’è abbastanza spesa nell’economia. In qualunque economia
del mondo la spesa deriva da 4 fonti diverse: imprese, famiglie, governo
nazionale e resto del mondo. Attualmente il problema delle nostre economie è
che la spesa per i consumi è calata con la diminuzione dei redditi. Se il
settore privato non consuma, le aziende non hanno clienti e quindi diminuiscono
gli investimenti, per cui vi sono due componenti importanti della domanda
aggregata che vengono ad essere fortemente depresse come accade ora. Il
consiglio di Lerner è quello di combattere questa congiuntura con la spesa
pubblica.
“Finanza
funzionale” è il termine che ha forgiato per la sua proposta di come il governo
debba gestire la propria politica fiscale. Il requisito fondamentale è la
presenza di sovranità monetaria: non lo si può fare con uno standard aureo o
con cambi di tasso fissi o con l’Euro. Il compito principale di un governo
dotato di un simile strumento è perciò quello di mantenere un livello di spesa
pubblica e tassazione adatto al conseguimento della piena occupazione: la
finanza funzionale non implica la determinazione arbitraria di un livello
obiettivo di deficit, bensì la
selezione di obiettivi reali da conseguire a qualunque livello di deficit
(primo su tutti quello della piena occupazione). Come abbiamo avuto modo di
constatare, le tasse non servono a
finanziare il governo ma fanno in modo che la valuta del governo venga
accettata. Il governo spende emettendo la propria valuta e non ha nemmeno
bisogno di prendere a prestito per farlo. Non ci sono vincoli finanziari
per un governo che emetta la propria moneta, e l’unico vero limite è costituito
dalle risorse reali: se si vuole utilizzare più risorse di quante siano
disponibili, il prezzo di queste ultime aumenta e vi sarà inflazione. Il
governo allora deve adoperarsi per tassare e mantenere stabile l’economia. La
spesa pubblica deve essere correttamente indirizzata al fine di realizzare
progetti d’investimento a beneficio dell’occupazione. La Modern Money Theory
propone un’ampia gamma di programmi, fra cui il più importante è la creazione
di Piani di Lavoro garantito (Job Guarantee):
l’idea sottostante è che il governo proponga un pacchetto di benefit a tutti i
disoccupati disposti a lavorare. Sostanzialmente il governo attinge ad una
riserva di sicurezza, assumendo i lavoratori disoccupati quando l’economia è
debole e lasciandoli assumere dalle imprese private quando essa è forte. Un
programma similare favorisce l’attuazione del programma governativo nonostante
la ciclicità naturale dell’economia, assecondandola.
Politica Fiscale ed
Occupazione Garantita (Job Guarantee approach) [19]
Fig. 3:
Le tre Colonne portanti dell’intervento pubblico votato al pieno impiego.
Fin dalla metà degli
anni ‘70 la classe politica e i policy
maker hanno basato le proprie scelte sull’ortodossia economica dominante, e
hanno quindi volutamente e costantemente imbrigliato le economie sostenendo in
modo pretestuoso che il ruolo dei propri interventi fosse quello di garantire
il buon funzionamento dell’economia tramite un tasso di disoccupazione definito naturale
(in inglese NAIRU, Non-Accelerating
Inflation Rate of Unemployment). Il costo cumulativo della mancata
produzione e della disoccupazione è immenso, e al suo confronto il costo
derivante dalla supposta inefficienza microeconomica è ben poca cosa. La
validità della teoria del NAIRU (tasso naturale di disoccupazione) trova
peraltro sempre minore conferma nei dati
empirici. In un’economia basata su un sistema a tasso di disoccupazione
naturale variabile nel tempo, un incremento della domanda induce un aumento di
produzione e occupazione e quindi, nel momento in cui il mercato subisce un
rallentamento, una serie di rapporti tra salari diversi (relativita) e tra
salari e prezzi (lotta distributiva) può indurre un’accelerazione
dell’inflazione. Come risposta, lo Stato deprime la domanda. La maggior
disoccupazione riporta le aspettative di reddito reale di lavoratori e imprese
a livelli più rispondenti ai redditi reali effettivi e l’inflazione si
stabilizza. In un sistema con isteresi[20], la
contrazione successiva può essere meno grave che in un sistema privo di
isteresi. In ambedue i casi, comunque, la produzione totale si riduce rispetto
ai livelli di un’economia in regime di piena occupazione, poiché alcuni dei
lavoratori attivi nel settore privato perdono la propria occupazione. Oltre al
calo produttivo, il paese va incontro ad ulteriori costi reali, tra cui la
svalutazione del capitale umano, la perdita di coesione familiare e
l’incremento della criminalità e della spesa sanitaria.
La proposta del
modello di occupazione garantita (Job Guarantee, JG) è stata
sviluppata indipendentemente da Mitchell
(1996, 1998a) e Mosler (1997-98).
Da allora è stata ripresa e ulteriormente elaborata da numerosi degli autori
citati in precedenza.
Un più ampio riassunto
della sua evoluzione e delle sue caratteristiche è stato pubblicato più di
recente da Mitchell e Watts (2001). Anche il programma di occupazione garantita
(Job Guarantee) si basa sul concetto del buffer
stock[21], come quello sotteso al funzionamento di
programmi di sostegno ai prezzi agricoli quali il Wool Floor Price Scheme
introdotto dal governo australiano nel 1970. Con l’approccio del JG, lo Stato
offre un’occupazione a reddito fisso, adottando una politica da noi definita di
“spesa basata sul prezzo” a chiunque
abbia le capacità e la volontà di svolgere quel lavoro, creando così una
“riserva” di occupati, la cui entità numerica cresce (o cala) ogni qualvolta
l’attività del settore privato subisce una contrazione (o un’espansione).
Il JG svolge in tal
modo una funzione di assorbimento volta a minimizzare i costi reali associati
alle variabilità del settore privato (Berger e Piore, 1980). Quando
l’occupazione nel privato si riduce, questa tendenza viene compensata da un
incremento occupazionale automatico nel settore pubblico. Il paese rimane
pertanto sempre in condizioni di piena occupazione, e ciò che varia è
unicamente la composizione tra i due settori in risposta alle decisioni di
spesa del settore privato. Poiché la possibilità di accesso al programma di
occupazione garantita è aperta a tutti, il salario fissato diviene
automaticamente il salario minimo nazionale. Per evitare ogni interferenza con
la struttura salariale delle imprese private e garantire che il JG favorisca
una stabilità dei prezzi, tale salario dovrebbe probabilmente essere fissato a
un livello pari all’attuale salario minimo di legge, lasciando comunque la
possibilità di scegliere di iniziare il programma con un livello salariale
leggermente maggiore, se ciò fosse richiesto da più ampie finalità di politica
industriale.
Il programma di
occupazione garantita non comporta alcun effetto relativo sui salari e
l’incremento della domanda in sé e per sé non alimenta necessariamente
l’inflazione, poiché le imprese tenderanno facilmente ad accrescere l’impiego
della capacità produttiva per far fronte all’incremento dei volumi di vendita.
Dato che la spinta della domanda sarebbe inferiore a quella richiesta
dall’approccio NAIRU variabile nel tempo, è evidente che l’eventuale inflazione
sarebbe minore in presenza di un programma di JG. Le imprese che debbano
assumere ulteriore manodopera per rispondere alla crescita di domanda dei
propri prodotti non dovranno affrontare problemi nuovi. L’aumento della domanda
stimolerà la crescita occupazionale nel settore privato riducendo così
l’occupazione legata al JG e la relativa spesa.
Ciononostante, questo andamento della domanda non
implicherebbe un aumento dell’inflazione. Se da un lato la politica di JG
libera la contrattazione salariale dalla minaccia generale della
disoccupazione, questo è controbilanciato da due fattori. Innanzitutto, sui
mercati del lavoro professionale, se la prospettiva della disoccupazione
influenza le pretese salariali, gli effetti della domanda possono finire per
riassorbire questa manodopera con un conseguente sviluppo di pressioni a
livello di rapporto salari-prezzi. Con un settore di istruzione avanzata
rafforzato e reattivo è possibile garantire la disponibilità delle competenze
necessarie. In secondo luogo, l’impresa privata dovrebbe comunque svolgere un’attività
formativa per erogare competenze specifiche ai nuovi lavoratori, esattamente
come avverrebbe in un’economia non basata sul JG. Tuttavia, in un sistema di
occupazione garantita, i lavoratori tenderebbero molto probabilmente a
mantenere livelli di competenze maggiori di quanto non avvenga tra coloro che
debbono subire lunghi periodi di disoccupazione. Questo tenderebbe a modificare
in modo piuttosto significativo il clima della contrattazione poiché i costi
formativi che le aziende dovrebbero sostenere sarebbero ridotti. In passato, le
stesse aziende avrebbero dovuto accettare un minor livello di competenze nei
neo-assunti ed erogare esse stesse più formazione sul posto di lavoro o
nell’ambito di corsi aziendali in mercati del lavoro rigidi. La politica di JG
riduce quindi l’inerzia isteretica
tipica dei disoccupati a lungo termine e permette una più agevole espansione
del settore privato. Va anche ricordato che, in presenza di disoccupazione
prolungata, l’eccessiva offerta di manodopera non rappresenta una seria
minaccia alla contrattazione salariale (Mitchell, 1987, 1998a). Si ipotizza
quindi che nel sistema JG questa minaccia sia maggiore.
Nel sistema JG, il
salario rappresenta un meccanismo intrinseco di controllo dell’inflazione
(Mitchell, 1998a, 2000a). Il rapporto tra occupazione JG e occupazione totale è
definito Buffer Employment Ratio
(BER). Il BER ha un effetto generale sulle richieste salariali. A un BER
elevato corrispondono richieste di salario reale basse. Se il livello di
inflazione superasse l’obiettivo fissato dallo Stato, si verificherebbe un
inasprimento della politica fiscale per aumentare il BER e questo implicherebbe
un trasferimento di lavoratori dal settore inflazionistico al settore JG a
prezzi fissi. Questo verrà in ultima analisi ad attenuare la spirale
inflazionistica. Pertanto, anziché disciplinare la lotta distributiva tra
capitale e lavoro mediante una riserva di disoccupati, lo stesso effetto si
otterrebbe con il programma di JG attraverso una serie di mutamenti della composizione
occupazionale, mantenendo comunque la piena occupazione. Al BER che induce una
stabilità dei prezzi è dato il nome di Non- Accelerating-Inflation-Buffer
Employment Ratio (NAIBER).
E’ un livello di JG
stabile in piena occupazione che dipende da una serie di fattori, ivi incluso
l’andamento dell’economia. Il NAIBER sarebbe superiore al NAIRU? La questione
nasce dal fatto che, in un sistema NAIRU, un particolare livello di domanda (in
corrispondenza di un dato livello di disoccupazione) frena il processo
inflazionistico. Ovviamente, introducendo un sistema JG, il livello iniziale di
occupazione garantita indurrà un livello di domanda superiore a quello
ereditato all’interno di un’economia NAIRU. Naturalmente, in un mondo NAIRU
questo avrebbe un effetto inflazionistico. Ma la politica del JG introduce una
“piena occupazione agile” per le ragioni già illustrate. Pertanto, è logico
ritenere che la limitazione alle spinte inflazionistiche esercitata dal NAIBER
sia maggiore di quella ottenibile con una strategia NAIRU. Gli Autori
concordano con Layard (1997: 190) quando egli afferma che “se si vuole ridurre significativamente la disoccupazione bisogna mirare
a politiche che abbiano buone prospettive di risultare davvero efficaci”.
Secondo Layard, i rimedi incentrati sull’offerta hanno avuto scarso successo
nella lotta alla disoccupazione. L’autore sostiene che apportare ulteriori
tagli alla durata dei sussidi di disoccupazione finirebbe per aumentare
l’occupazione solo al costo di creare una sub-classe attraverso una “sempre crescente disuguaglianza salariale”
(1997: 192). Layard ritiene che sia più opportuna la creazione di occupazione
da parte dello Stato, la quale permetta alle persone di “riacquisire abitudini
di lavoro [...] dimostrare la propria capacità professionale... [e reinserirle]
...nell’universo dei soggetti occupabili. Questo significa davvero investire
nel capitale umano dell’Europa.” (Layard, 1997: 192). Il programma JG è il
grande mutamento di cui ha bisogno l’economia australiana per avviare un processo
di reintegro nel mercato del lavoro della grande massa di disoccupati da cui è
afflitta fin dalla metà degli anni ‘70[22]. Si può
prevedere un calo graduale del numero di lavoratori che comporranno la riserva
JG, man mano che l’economia acquisirà un livello crescente di attività
associata alla piena occupazione.
Schema indicante un
esempio organizzativo per implementazione piani di ELR verso un JG
Gli autori del
documento sono i componenti del gruppo economico di Economia per i cittadini
(E.p.i.c.).:
[2] “Nessuno stato
sovrano che emetta la propria moneta può fallire, dunque questo verrebbe anche
a garanzia dei crediti tedeschi, che certo varrebbero di meno se ripagati nella
nuova-lira, ma solo, ipotizziamo, di un 20% in meno.” Fonte: http://www.ilmanifesto.it/attualita/notizie/mricN/8141/
[4] “Tale riferimento [alla piena occupazione, ndr] è stato
sistematicamente abbandonato in molte delle nazioni dell’OCSE negli ultimi 30
anni. L’attenzione delle teorie “mainstream” si è spostata sul mantenimento del
livello generale dei prezzi e sulla soppressione della funzione stabilizzatrice
delle politiche fiscali”. “Full Employment Abandoned,
shifting sands and policy failures”, W. Mitchell-J.Muysken, E.E. (2008)
[5] L.L.Pasinetti:”Keynes
e i Keynesiani di Cambridge”, 2007, pag. 20: “[...] E’ all’interno di questo
contesto, mi sembra, che è possibile sostenere che, nell’evoluzione storica
delle idee economiche da Adam Smith in poi, tutte le teorie economiche possono
essere ricondotte o all’uno o all’altro di due paradigmi alternativi molto
ampi, uno focalizzato sullo scambio (e
più fondamentalmente sull’utilità e il valore soggettivo) e l’altro sulla produzione (e più fondamentalmente sul
lavoro e il valore oggettivo).” Ulteriori contributi a ciò del prof. Pasinetti:
1981,1986,1993.
[6] W.Mosler, ”The 7 deadly innocent frauds of Economic Policy”, cap I,
pag. 13 “Federal government spending is
in no case operationally constrained by revenues, meaning that there is no
“solvency risk.”
[7] La Banca D’Italia, appunto,
che dovrebbe quindi smettere di essere un componente del SEBC (Sistema Europeo
Banche Centrali) per tornare ad essere l’istituto di diritto pubblico della
Repubblica Italiana orientato al controllo e sviluppo del sistema monetario
nazionale, in coordinamento con quello internazionale, attraverso le operazioni
convenzionalmente in esso svolte dai vari agenti che vi operano, tra cui,
appunto tutte le BC nazionali di ogni Paese.
[11] A tal proposito abbiamo già
citato l’ideologia di base da noi descritta, nello straordinario lavoro del
Prof. Parguez che ha suggerito la prima parte di tale elaborato.
[13] cfr. B. Moore (1998), The
endogenous money supply, Journal of Post-Keynesian Economics.
[14] cfr. W. Mosler, M. Forstater, The
Natural Rate of Interest Is Zero, Journal of Economic Issues Vol. XXXIX, No. 2 (2005).
[21] Nel modello del tasso di
disoccupazione naturale (NAIRU) il buffer
stock consiste in una riserva di disoccupati, mentre nel modello delineato
da Mitchell e Mosler si tratta di una riserva di occupati dal settore pubblico.
[22] Il paper è pensato come
analisi del contesto australiano ma ovviamente le considerazioni circa la
necessità di abbattere la disoccupazione mediante piani di lavoro garantito
assumono carattere generale.
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