LE ORIGINI DEL MITO DELL'ARCADIA: TEOCRITO E IL "CIRCOLO DI COS"

 

 

Volendo rimanere con i piedi per terra, per spiegare l'idealizzazione della campagna da parte di Teocrito non è affatto necessario ricorrere a tesi artificiose come quella della setta segreta: potrebbe essere sufficiente ricordare che l’ellenismo vede la nascita di megalopoli caotiche, affollatissime, malavitose e rumorose (si veda l’idillio XV, Le Siracusane); in questo contesto poteva facilmente nascere il mito della serenità campestre, poi più volte ripreso anche in tono letterario; non si dimentichi che in vari idilli lo stesso poeta mette in luce i molti difetti della città. Ma l'interpretazione appare banalizzante, e gli adepti del Circolo di Cos potrebbero in effetti essere stati dediti a culti della dea-madre analoghi a quelli praticati dagli Arcadi moderni: non si dimentichi infatti che i tre amici protagonisti delle Talisie sono diretti alla festa di Demetra, dea della fertilità per eccellenza.

A monte dell'appassionato elogio della natura che si legge nell'idillio potrebbe esservi qualcosa di più della gioia spontanea del cittadino che gode del contatto ritrovato con le cose semplici: alla campagna Teocrito non guarda con romantica nostalgia, ma come al luogo in cui si realizza l'unione dello spirito con l’ambiente dei campi, che è l’unica sede di una primigenia felicità. Questo risulta particolarmente evidente nel finale: il luogo in cui Simìchida ed i suoi amici sono diretti è una sorta di locus amoenus antropizzato: gli uomini hanno creato "alti giacigli di giunco / soave, e pampini di vite appena colti" (ib. vv. 134-135). Sono presenti alberi ombrosi e una sorgente nella grotta. Sui rami le cicale friniscono, l’usignolo gorgheggia. Si sentono anche altri suoni familiari e rassicuranti: le allodole ed i cardellini, la tortora, le api. Nella sinestesia finale, creata dal profumo del raccolto dei frutti (ib., vv. 135-145), tutti i sensi sono coinvolti. Il panismo per così dire pre-dannunziano di questo atteggiamento teocriteo, unito all'esplicito riferimento a Demetra, dà in effetti molto da pensare.

Tuttavia l'ipotesi del "Circolo di Cos" come presursore dell'Arcadia moderna, i cui membri sarebbero i custodi di strani misteri ed inquietanti segreti, è tanto affascinante quanto a nostro parere azzardata: una simile Arcadia, seppure sia mai esistita nei termini prima descritti, sembra essere solamente moderna. Inoltre, ed è questo che soprattutto c'interessa, è da sfatare l'idea che il mito dell'Arcadia nasca con Teocrito e con il presunto "Circolo di Cos": il poeta infatti non ambienta i suoi Idilli in Arcadia, né fa cenno a questa regione della Grecia; l'ambientazione dei suoi idilli pastorali è mediterranea e riflette la campagna assolata della Sicilia, sua terra natale, o dell'isola di Cos. Chi dà l'avvio al mito dell'Arcadia, come vedremo, è il Virgilio delle Bucoliche.

 

 

Thomas Eakins, Arcadia, circa 1883

 

Piuttosto, a monte della scelta pastorale teocritea potrebbe esserci un substrato filosofico particolare.

Teocrito è diverso dagli altri esponenti dell'élite intellettuale alessandrina proprio nel suo essere estraneo alle beghe di corte ed ai maneggi per ottenere cariche prestigiose come quella di epistàtes (direttore della Biblioteca); egli si estrania da questa realtà per entrare in un'altra per così dire virtuale, che per molti versi può ricordare un odierno gioco di ruolo: e qui vive una vita appartata con gli amici che condividono la sua visione del mondo.

Ma che cosa fanno Teocrito ed i suoi amici "pastori" in questo locus amoenus? Salvo eccezioni (Idillo X, I mietitori), non lavorano affatto: trascorrono il loro tempo immersi in due attività, amare e cantare.

L'amore è rappresentato in una serie quanto mai varia di sfaccettature, dall’affanno che non dà tregua (si veda il II idillio, che descrive la malattia d'amore di Simeta) alla gioia (si veda il XII Idillio, in cui l’inizio riecheggia palesemente un verso di Saffo: "sei venuto, caro fanciullo, con la terza notte ed aurora, sei venuto") ad una certa convenzionalità, che risente di modi abituali nell’alessandrinismo. Sempre, però, Teocrito sembra mantenere nei confronti dei turbamenti d'amore dei suoi personaggi un distacco superiore e ironico che gli deriva dalla piena adesione ai princìpi della poetica di Callimaco (bene espressi soprattutto nel già ricordato Idillio VII, Le Talisie). Questa caratteristica e gradevole ironia, che fa parte del "senso della misura" così tipicamente teocriteo, è particolarmente evidente nell'XI idillio, Il Ciclope, ove Polifemo illustra a Galatea i suoi beni, cercando di vantare la condizione di agiatezza in cui si trova e di valorizzare il suo aspetto fisico, non del tutto spregevole nonostante l’unico occhio sovrastato da un sopracciglio villoso, o nel X idillio, I mietitori, in cui il poeta crea un contrasto tra il lirismo appassionato di Buceo, che effonde con accenti intensi il suo recente amore, e il tono rude e sgrigativo di Milone, che non ritiene utile e produttivo perdere tempo e fatica dietro a queste cose.

Il secondo tema, quello del canto poetico, è complementare al primo ed è fondamentale per diversi motivi: la poesia risolleva l’animo abbattuto dalla sventura o dall’amore respinto, allevia la fatica, dà piacere agli uomini, consegna i mortali all'immortalità, è in grado di trasmettere delle verità (si vedano ancora le parole di Lìcida nelle Talisie); più di una volta il poeta ci fa assistere ai canti amebei dei pastori (come nell'idillio IX I Cantori), conclusi spesso da un reciproco scambio di doni o inquadrati in una competizione, che vede un vincitore e un vinto; la vittoria viene decretata da un giudice improvvisato sulla base del rispetto di una serie di regole sottintese che ci sfuggono totalmente, ma che risultano "evidenti" ai personaggi: nel caso delle Talisie, per esempio, risulta "chiaro" che il vincitore è Simìchida, come lo stesso Lìcida ammette, sebbene a noi risultino incomprensibili le motivazioni di questa vittoria.

Ora, questo stile di vita appartato, lontano dall'impegno politico e civile, fatto di amori giocosi e di canto, a contatto diretto con la natura incontaminata, ricorda molto da vicino il λάθε βιώσας epicureo, e la funzione rasserenante del canto, visto come antidoto alla sofferenza d'amore, ricorda anch'essa la valutazione negativa dell'eros e la ricerca dell'ἀπονία e dell'ἀταραξία tipiche di questa scuola filosofica.

Anche se non ci sono documentati per Teocrito rapporti con i filosofi del suo tempo (come lo sono invece per Virgilio), possiamo dire che l’ideale teocriteo dell’ἁσυχία  (hasychìa), finalità primaria della poesia, traduca in termini poetici l’ideale epicureo dell'ἀταραξία. Anche il distacco ironico manifestato nei confronti della passione d'amore è coerente con i princìpi dell'epicureismo, come pure la valutazione estremamente positiva della φιλία (amicizia). Proprio nella ristretta cerchia dei suoi amici, infatti, Teocrito cerca il ritiro dal mondo, realizzato senza l’astiosità polemica che rintracciamo nelle dichiarazioni di poetica di Callimaco; la poesia deve aiutare gli amici a raggiungere la pace dello spirito, la felicità che Epicuro voleva comunicare ai suoi seguaci sul piano razionale per mezzo della filosofia; ma per raggiungere questa pace è necessario vivere κατὰ φύσιν ("secondo natura"), come afferma lo stesso Epicuro e come Teocrito e i suoi amici di Cos mettono in pratica.

Come ripeto, non abbiamo alcuna informazione circa l'adesione di Teocrito alla filosofia epicurea; certo è, però, che un substrato filosofico di questo genere si attaglia perfettamente allo stile di vita del "Circolo di Cos" e dei suoi pastori-poeti; potrebbe quindi non essere un caso che l'epicureo Virgilio si sia orientato a colpo sicuro verso la poesia bucolica di Teocrito: egli forse sapeva, o comunque avvertiva, che un identico orientamento filosofico lo accomunava al poeta greco.

Il vagheggiamento pastorale teocriteo, dunque, non è (ancora) Arcadia, ma è semmai idealizzazione della physis, contrapposta al nòmos come una sorta di antidoto e forse legata ad un vero e proprio culto, ed il suo pastore-poeta appare come  una sorta di moderno "buon selvaggio" intellettuale che tenta il ritorno alla naturalità portando con sé tutto il bagaglio della raffinata cultura cittadina, e, forse, della filosofia epicurea.