APOLLONIO RODIO: MEDEA E GIASONE COME ERIKA E OMAR

 

 

Nella tanto decantata rappresentazione di Medea da parte di Apollonio Rodio (295-215 a.C.) c'è un elemento che disturba profondamente: l'assoluta mancanza di verosimiglianza psicologica. A differenza della Medea di Euripide, infatti, compatta ed unitaria pur nel suo essere dilaniata tra amore e vendetta, quella di Apollonio risulta in pratica dalla giustapposizione - senza fusione né trapasso - tra due personaggi diversi, per non dire antitetici: la fanciulla ingenua del terzo libro e la donna decisa e spietata del quarto. Decisa fino al crimine.

Vediamo la vicenda nei dettagli.

All'inizio del terzo libro Medea, con l'animo già sconvolto dalla passione, ma ancora razionalmente inconsapevole di essa, dopo avere assistito al colloquio tra Giasone e suo padre, è atterrita al pensiero della tremenda prova imposta all'eroe. All'inizio non sa darsi ragione di tanta angoscia e vorrebbe convincersi che il Greco è solo un estraneo: ma nello stesso istante i suoi veri sentimenti prorompono incontenibili.

Nella notte successiva il riposo della fanciulla è turbato da sogni che le preannunciano un futuro segnato dal lacerante conflitto fra l'amore per lo straniero e i vincoli che la legano ai suoi genitori e alla sua terra.

Nel sogno la realtà di ciò che sta per accadere è deformata in alcuni particolari, che riflettono le pulsioni dell'inconscio di Medea. Nel monologo che segue torna a manifestarsi il contrasto fra passione e ragione, in cui i propositi di fedeltà alla patria e alla condizione di vergine sono contraddetti dalla consapevolezza ormai piena del sentimento. Trovato un fragile alibi nel dichiarato proposito di voler aiutare l'eroe solo per salvare i figli della sorella Calciope (i figli avevano seguito il padre Frisso in Grecia e ora facevano parte degli Argonauti; per questo morivo, che considerava un vero e proprio tradimento, Eeta aveva minacciato di punirli), Medea tuttavia è trattenuta continuamente dal pudore, che le impedisce di recarsi dalla sorella. Alla fine, estenuata, perde i sensi. Quindi il prorompere devastante della passione assume i connotati di una veglia angosciosa, contrassegnata dal motivo del contrasto fra la quiete notturna che avvolge tutte le cose e l'insonne tormentarsi del personaggio.

 

 

Evelyn De Morgan, Medea, 1889

 

Dopo un altro lungo monologo, in cui il solito contrasto fra amore e pudore si manifesta in modo più violento, l'idea di un gesto estremo appare alla fanciulla l'unica via d'uscita possibile: decide di farla finita in quello stesso momento e le sue mani corrono allo scrigno dove custodisce i filtri magici, il cui ambiguo nome designa sia i rimedi sia i veleni che danno l'eterno oblio. Tuttavia prende poi il sopravvento il disperato attaccamento alla vita e alle gioie della giovinezza e desiderio dell'alba non si identifica più con quello di porre fine alla notte di tormento, ma diviene soprattutto smania di rivedere il volto di Giasone, di potergli finalmente rivelare il proprio sentimento e di rassicurarlo sull'aiuto che intende dargli.

I primi chiarori del giorno illuminano un'altra Medea, pronta a sacrificare tutto e tutti sull'altare della sua irrefrenabile passione.

Medea dà convegno a Giasone al tempio della dea Ecate e ne attende l'arrivo. Segue la descrizione dei devastanti effetti della vista dell'uomo amato su Medea: l'enumerazione patologica di sintomi trova il suo modello canonico nella celebre Ode II di Saffo. La fanciulla tiene il volto basso, trema di emozione e non riesce a proferire parola. Il lungo discorso di Giasone risulta invece costruito secondo un programmato schema retorico, così da suonare freddamente cortese e essenzialmente rivolto ad accattivarsi le simpatie della fanciulla in vista dell'aiuto.

Il dolcissimo sorriso che illumina il volto della fanciulla segna modo evidente la vittoria dell'abilissimo oratore, ma anche quella dell'amore, sottolineata dagli sguardi ardenti che ella ormai apertamente rivolge Giasone.

Dopo aver istruito minuziosamente l'eroe sullo svolgimento della prova e su come superarla, Medea non può trattenere le lacrime al pensiero del distacco che seguirà alla conquista del vello; l'eroe la rassicura promettendole che se un giorno ella dovesse giungere nella sua patria, la farebbe sua legittima sposa: queste parole le danno una gioia indicibile, anche se il pensiero del prezzo che dovrà pagare per realizzare il suo sogno la fa rabbrividire.

Come si può notare, la Medea del terzo libro delle Argonautiche è e rimane una fanciulla al primo amore, che pur nell'esplosione della passione conserva i dubbi, i tormenti, i patimenti, le incertezze, i rossori, le esitazioni, in una parola le ingenuità di un'adolescente.