Il
ruolo e l'atteggiamento
di Saturnino
in quest'occasione non sono troppo
diversi da quelli
di Plinio
il Giovane
in una circostanza
analoga.
Egli ci ha lasciato una
raccolta di epistole in 10 libri, l’ultimo dei quali contiene
il carteggio ufficiale tra lui e l’imperatore Traiano. Queste lettere
risalgono per lo più al periodo del governatorato di Plinio in Bitinia,
ovvero agli anni 111-113, e sono una fonte documentaria di eccezionale
importanza.
In una di queste lettere - scritta
nello stesso periodo in cui l’amico Tacito redigeva il suo racconto
sulla persecuzione cristiana del 64 - Plinio si rivolge a Traiano per
ottenere istruzioni da seguirsi nei processi contro i cristiani della
Bitinia e del Ponto, ove ricopriva la carica di legato con
potere consolare.
Statua
di Plinio il
Giovane sulla
facciata del
Duomo di Como
Ecco la lettera
(Epistulae X, 96,
1-9):
Sollemne est mihi, domine, omnia de quibus
dubito ad te referre. Quis enim potest melius vel cunctationem meam regere
vel ignorantiam instruere? Cognitionibus de Christianis interfui numquam:
ideo nescio quid et quatenus aut puniri soleat aut quaeri. Nec mediocriter
haesitavi, sitne aliquod discrimen aetatum, an quamlibet teneri nihil a
robustioribus differant; detur paenitentiae venia, an ei, qui omnino
Christianus fuit, desisse non prosit; nomen ipsum, si flagitiis careat, an
flagitia cohaerentia nomini puniantur. Interim, in iis qui ad me
tamquam Christiani deferebantur, hunc sum secutus modum. Interrogavi ipsos
an essent Christiani. Confitentes iterum ac tertio interrogavi supplicium
minatus: perseverantes duci iussi. Neque enim dubitabam, qualecumque esset
quod faterentur, pertinaciam certe et inflexibilem obstinationem debere
puniri. Fuerunt alii similis amentiae, quos, quia cives Romani erant,
adnotavi in urbem remittendos. Mox ipso tractatu, ut fieri solet,
diffundente se crimine plures species inciderunt.
Propositus est libellus
sine auctore multorum nomina continens. Qui negabant esse se Christianos
aut fuisse, cum praeeunte me deos adpellarent et imagini tuae, quam
propter hoc iusseram cum simulacris numinum adferri, ture ac vino
supplicarent, praeterea male dicerent Christo, quorum nihil cogi posse
dicuntur qui sunt re vera Christiani, dimittendos putavi. Alii ab indice
nominati esse se Christianos dixerunt et mox negaverunt; fuisse quidem sed
desisse, quidam ante triennium, quidam ante plures annos, non nemo etiam
ante viginti. Hi quoque omnes et imaginem tuam deorumque simulacra
venerati sunt et Christo male dixerunt. Adfirmabant autem hanc fuisse
summam vel culpae suae vel erroris, quod essent soliti stato die ante
lucem convenire, carmenque Christo quasi deo dicere secum invicem seque
sacramento non in scelus aliquod obstringere, sed ne furta ne latrocinia
ne adulteria committerent, ne fidem fallerent, ne depositum adpellati
abnegarent.
Quibus peractis morem sibi discedendi fuisse rursusque coeundi
ad capiendum cibum, promiscuum tamen et innoxium; quod ipsum facere
desisse post edictum meum, quo secundum mandata tua hetaerias esse
vetueram. Quo magis necessarium credidi ex duabus ancillis, quae ministrae
dicebantur, quid esset veri, et per tormenta quaerere. Nihil aliud inveni
quam superstitionem pravam et immodicam.
Ideo dilata cognitione ad
consulendum te decucurri. Visa est enim mihi res digna consultatione,
maxime propter periclitantium numerum. Multi enim omnis aetatis, omnis
ordinis, utriusque sexus etiam vocantur in periculum et vocabuntur. Neque
civitates tantum, sed vicos etiam atque agros superstitionis istius
contagio pervagata est; quae videtur sisti et corrigi posse.
È
mia abitudine,
o signore, deferire
a te tutte le
questioni in
merito alle
quali sono incerto.
Chi infatti
può meglio
dirigere la
mia titubanza
o istruire la
mia incompetenza?
Non ho mai
preso parte
ad istruttorie
a carico dei
Cristiani; pertanto,
non so che cosa
e fino a qual
punto si sia
soliti punire
o inquisire.
Ho anche assai
dubitato se
si debba tener
conto di qualche
differenza di
anni; se anche
i fanciulli
della più
tenera età
vadano trattati
diversamente
dagli uomini
nel pieno del
vigore; se si
conceda grazia
in seguito al
pentimento,
o se a colui
che sia stato
comunque cristiano
non giovi affatto
l’aver cessato
di esserlo;
se vada punito
il nome di per
se stesso, pur
se esente da
colpe, oppure
le colpe connesse
al nome.
Nel frattempo,
con coloro che
mi venivano
deferiti quali
Cristiani, ho
seguito questa
procedura: chiedevo
loro se fossero
Cristiani. Se
confessavano,
li interrogavo
una seconda
e una terza
volta, minacciandoli
di pena capitale;
quelli che perseveravano,
li ho mandati
a morte. Infatti
non dubitavo
che, qualunque
cosa confessassero,
dovesse essere
punita la loro
pertinacia e
la loro cocciuta
ostinazione.
Ve ne furono
altri affetti
dalla medesima
follia, i quali,
poiché
erano cittadini
romani, ordinai
che fossero
rimandati a
Roma. Ben presto,
poiché
si accrebbero
le imputazioni,
come avviene
di solito per
il fatto stesso
di trattare
tali questioni,
mi capitarono
innanzi diversi
casi.
Venne messo
in circolazione
un libello anonimo
che conteneva
molti nomi.
Coloro che negavano
di essere cristiani,
o di esserlo
stati, ritenni
di doverli rimettere
in libertà,
quando, dopo
aver ripetuto
quanto io formulavo,
invocavano gli
dei e veneravano
la tua immagine,
che a questo
scopo avevo
fatto portare
assieme ai simulacri
dei numi, e
quando imprecavano
contro Cristo,
cosa che si
dice sia impossibile
ad ottenersi
da coloro che
siano veramente
Cristiani.
Altri, denunciati
da un delatore,
dissero di essere
cristiani, ma
subito dopo
lo negarono;
lo erano stati,
ma avevano cessato
di esserlo,
chi da tre anni,
chi da molti
anni prima,
alcuni persino
da vent’anni.
Anche tutti
costoro venerarono
la tua immagine
e i simulacri
degli dei, e
imprecarono
contro Cristo.
Affermavano
inoltre che
tutta la loro
colpa o errore
consisteva nell’esser
soliti riunirsi
in un giorno
fissato prima
dell’alba e
intonare a cori
alterni un inno
a Cristo come
se fosse un
dio, e obbligarsi
con giuramento
non a perpetrare
qualche delitto,
ma a non commettere
né furti,
né frodi,
né adulteri,
a non mancare
alla parola
data e a non
rifiutare la
restituzione
di un deposito,
qualora ne fossero
richiesti. Fatto
ciò,
avevano la consuetudine
di ritirarsi
e riunirsi poi
nuovamente per
prendere un
cibo, ad ogni
modo comune
e innocente,
cosa che cessarono
di fare dopo
il mio editto
nel quale, secondo
le tue disposizioni,
avevo proibito
l’esistenza
di sodalizi.
Per questo,
ancor più
ritenni necessario
l’interrogare
due ancelle,
che erano dette
ministre, per
sapere quale
sfondo di verità
ci fosse, ricorrendo
pure alla tortura.
Non ho trovato
null’altro al
di fuori di
una superstizione
balorda e smodata.
Perciò,
differita l’istruttoria,
mi sono affrettato
a richiedere
il tuo parere.
Mi parve infatti
cosa degna di
consultazione,
soprattutto
per il numero
di coloro che
sono coinvolti
in questo pericolo;
molte persone
di ogni età,
ceto sociale
e di entrambi
i sessi, vengono
trascinati,
e ancora lo
saranno, in
questo pericolo.
Né soltanto
la città,
ma anche i borghi
e le campagne
sono pervase
dal contagio
di questa religione;
credo però
che possa esser
ancora fermata
e riportata
nella norma.
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