GIACOMO LEOPARDI E ANTONIO RANIERI

 

 

L’amicizia è un valore fondamentale per Leopardi, e contrariamente a quanto si pensa comunemente la sua fu una vita di profonde relazioni amicali: a partire dal fratello Carlo, passando per Giordani e arrivando, attraverso gli “amici di Toscana”, ad Antonio Ranieri, numerosi furono gli uomini (e le donne) con cui Leopardi intrattenne continui e fecondi rapporti, sia di persona sia per lettera.

Anche nelle sue opere il richiamo a questo sentimento è frequente: basti ricordare i Pensieri, e la lusinghiera menzione che vi si fa dell'amico Ranieri.

La riflessioni consegnate allo Zibaldone su questo tema sono ovviamente connesse per lo più alla propria esperienza personale: l’amicizia è difficile nei tempi moderni, ed è “meno verisimile l’amicizia fra due giovani che fra un giovane, e un uomo di sentimento già disingannato del mondo, e disperato della sua propria felicità” (come è accaduto allo stesso Leopardi e Pietro Giordani) [104]; “Chi ha disperato di se stesso, o per qualunque ragione, si ama meno vivamente, è meno invidioso, odia meno i suoi simili, ed è quindi più suscettibile di amicizia... Chi più si ama meno può amare” [1723]; l’amicizia tra fratelli “rade volte si conserva all’entrar che questi fanno nel mondo” [2682-3]; le persone deboli simulano l’amicizia per ottenere aiuto dagli altri [3280]; alcuni giovani non vogliono avere amici ma nemici, “perché il loro stato naturale è lo stato di guerra” [3942-4, 4482]; Leopardi ha di solito conservato le amicizie contratte, “eziandio con persone difficilissime”: perché “io non mi disgusto mai di un amico per sue negligenze... se non quando io veggo chiaramente... in lui un animo e una volontà determinata di farmi dispiacere e offesa. Cosa che in verità è rarissima” [4274].

Ma soprattutto mi ha colpita questa riflessione: "Chi non è mai uscito da luoghi piccoli, come ha per chimere i grandi vizi, così le vere e solide virtù sociali. E nel particolare dell’amicizia, la crede uno di quei nomi e non cose, di quelle idee proprie della poesia o della storia, che nella vita reale e giornaliera non s’incontrano mai (e certo egli non si aspetta d’incontrarne mai nella sua). E s’inganna. Non dico Piladi e Piritoi, ma amicizia sincera e cordiale si trova effettivamente nel mondo, e non è rara. Del resto, i servigi che si possono attendere dagli amici, sono, o di parole (che spesso ti sono utilissime), o di fatti qualche volta; ma di roba non mai, e l’uomo avvertito e prudente non ne dee richiedere di sì fatti (di tal fatta)” [4523].

Tuttavia, se l'amicizia fu sempre importante per Giacomo, l'amico più fedele e devoto fu per lui il napoletano Antonio Ranieri, che ospitò il poeta fino alla morte per sette lunghi anni.

Ma per potere comprendere ancor meglio il tutto occorre ripercorrere le principali tappe delle amicizie di Leopardi.

 

 

Giacomo Leopardi

 

L'adolescente Giacomo, dopo aver trascorso 19 anni di intensissimi studi nella biblioteca paterna, provato nel fisico ma soprattutto nella mente, non vedeva l'ora di evadere dal "natio borgo selvaggio". Il ragazzo, oramai dotto, voleva conoscere il mondo, voleva far conoscere il suo pensiero e le sue fatiche letterarie. E' commovente l'entusiasmo con il quale scrive la terza lettera a Pietro Giordani (30 Aprile del 1817), in cui sente finalmente un amico.  La prima lettera (per farsi conocere) gliel' aveva inviata il 21 Febbraio del '17: poche e sussieguose parole. La seconda, un mese dopo, il 21 Marzo: un fiume di parole, ove fra l'altro arriva a dire: "Io ho grandissimo, forse smoderato e insolente desiderio di gloria".  Ma quello che testimonia la voglia di mondo sta nel finale della lettera, laddove Giacomo accende il legame d'amicizia: "Le sue lettere m'han dato animo. Ho veduto che Ella è un signore da sopportarmi, e da acconciarsi anche ad istruirmi… Mi brillerà il cuore ogni volta che mi giungerà una sua lettera" (Op. cit. pag. 1020). Ma eccoci finalmente alla lettera dell'entusiasmo, quella del 30 Aprile 1817: "Oh quante volte, carissimo e desideratissimo Signor Giordani mio,  ho supplicato il cielo che mi facesse trovare un uomo di cuore d'ingegno e di dottrina straordinario, il quale trovato potessi pregare che si degnasse di concedermi l'amicizia sua" (id. pag. 1023). Giordani (ex monaco benedettino ed ex uomo di legge, liberale e filonapoleonico), che era più vecchio di Leopardi di ben cinque lustri, comprese subito la grandezza di Giacomo e lo incoraggiò molto.

 

 

Recanati

 

La prima evasione, consenziente il padre, avvenne nel 1822: destinazione Roma. Inutile dire che fu accolto dai vari Angelo Mai, Canova, Cancellieri, e dall'ambiente letterario romano, con sufficienza. L'odiata Recanati cominciò a fargli sentire nostalgia di sé: dopo cinque mesi vi fece ritorno. Vi rimase due anni. Dopo si recò a Milano, via Bologna, presso l'editore Stella che gli aveva proposto di curare l'opera omnia di Cicerone. Ma anche Milano gli parve fredda: vi fu accolto con indifferenza. Bologna invece gli piacque, anche perché fu accolto con calore dal Giordani e dal Brighenti. Ottenne da Stella di lavorare a Bologna, ma il compenso percepito non gli bastava per far fronte alle spese (questo sarà un ritornello che si ripeterà nel corso di tutte le evasioni successive). Per sua fortuna, alla pensione dove alloggiava, un'ex cameriera gli offrì il vitto per tutto il tempo della sua permanenza.  Montanelli ci informa che in quel periodo il povero Giacomo, causa il forte freddo, "lavorava dentro un sacco imbottito di piume".  Finito il lavoro tornò a Recanati, da cui ripartì per Firenze, ove non si trovò bene. Ritornò a Recanati e poi nuovamente a Firenze.

Il 21 Marzo del '30 prese la decisione di non tornare mai più a Recanati: lettera al Vieusseux del 9 Febbraio: "Sono risoluto… a Recanati non ritornare mai più. Non farò distinzioni di mestieri… non guarderò ad umiliazioni; perché non si dà umiliazione o avvilimento maggiore di quello ch'io soffro vivendo in questo centro dell'inciviltà e dell'ignoranza europea".