L’amicizia
è
un
valore
fondamentale
per
Leopardi,
e
contrariamente
a
quanto
si
pensa
comunemente
la
sua
fu
una
vita
di
profonde
relazioni
amicali:
a
partire
dal
fratello
Carlo,
passando
per
Giordani
e
arrivando,
attraverso
gli
“amici
di
Toscana”,
ad
Antonio
Ranieri,
numerosi
furono
gli
uomini
(e
le
donne)
con
cui
Leopardi
intrattenne
continui
e
fecondi
rapporti,
sia
di
persona
sia
per
lettera.
Anche
nelle
sue
opere
il
richiamo
a
questo
sentimento
è
frequente:
basti
ricordare
i
Pensieri,
e
la
lusinghiera
menzione
che
vi
si
fa
dell'amico
Ranieri.
La
riflessioni
consegnate
allo
Zibaldone
su
questo
tema
sono
ovviamente
connesse
per
lo
più
alla
propria
esperienza
personale:
l’amicizia
è
difficile
nei
tempi
moderni,
ed
è
“meno
verisimile
l’amicizia
fra
due
giovani
che
fra
un
giovane,
e
un
uomo
di
sentimento
già
disingannato
del
mondo,
e
disperato
della
sua
propria
felicità”
(come
è
accaduto
allo
stesso
Leopardi
e
Pietro
Giordani)
[104]; “Chi
ha
disperato
di
se
stesso,
o
per
qualunque
ragione,
si
ama
meno
vivamente,
è
meno
invidioso,
odia
meno
i
suoi
simili,
ed
è
quindi
più
suscettibile
di
amicizia...
Chi
più
si
ama
meno
può
amare”
[1723]; l’amicizia
tra
fratelli
“rade
volte
si
conserva
all’entrar
che
questi
fanno
nel
mondo”
[2682-3]; le
persone
deboli
simulano
l’amicizia
per
ottenere
aiuto
dagli
altri
[3280]; alcuni
giovani
non
vogliono
avere
amici
ma
nemici,
“perché
il
loro
stato
naturale
è
lo
stato
di
guerra”
[3942-4,
4482];
Leopardi
ha
di
solito
conservato
le
amicizie
contratte,
“eziandio
con
persone
difficilissime”:
perché
“io
non
mi
disgusto
mai
di
un
amico
per
sue
negligenze...
se
non
quando
io
veggo
chiaramente...
in
lui
un
animo
e
una
volontà
determinata
di
farmi
dispiacere
e
offesa.
Cosa
che
in
verità
è
rarissima”
[4274].
Ma
soprattutto
mi
ha
colpita
questa
riflessione:
"Chi non è mai uscito da luoghi piccoli, come ha per chimere i grandi
vizi, così le vere e solide virtù sociali. E nel particolare
dell’amicizia, la crede uno di quei nomi e non cose, di quelle idee
proprie della poesia o della storia, che nella vita reale e giornaliera
non s’incontrano mai (e certo egli non si aspetta d’incontrarne mai
nella sua). E s’inganna. Non dico Piladi e Piritoi, ma amicizia sincera
e cordiale si trova effettivamente nel mondo, e non è rara. Del resto, i servigi che si possono attendere dagli amici, sono, o
di parole (che spesso ti sono utilissime), o di fatti qualche volta; ma
di roba non mai, e l’uomo avvertito e prudente non ne dee richiedere di
sì fatti (di tal fatta)” [4523].
Tuttavia,
se
l'amicizia
fu
sempre
importante
per
Giacomo,
l'amico
più
fedele
e devoto
fu
per
lui
il
napoletano
Antonio
Ranieri,
che
ospitò
il
poeta
fino
alla
morte
per
sette
lunghi
anni.
Ma per potere comprendere
ancor meglio il tutto occorre ripercorrere le principali
tappe
delle
amicizie
di
Leopardi.
Giacomo
Leopardi
L'adolescente
Giacomo, dopo aver trascorso
19 anni di intensissimi studi nella biblioteca paterna, provato nel
fisico ma soprattutto nella mente, non vedeva l'ora di evadere dal
"natio borgo selvaggio". Il ragazzo, oramai dotto, voleva conoscere il mondo, voleva far
conoscere il suo pensiero e le sue fatiche letterarie. E' commovente
l'entusiasmo con il quale scrive la terza lettera a Pietro Giordani (30
Aprile del 1817), in cui sente finalmente un amico. La prima lettera
(per farsi conocere) gliel' aveva inviata il 21 Febbraio del '17: poche
e sussieguose parole. La seconda, un mese dopo, il 21 Marzo: un fiume di
parole, ove fra l'altro arriva a dire: "Io ho grandissimo, forse
smoderato e insolente desiderio di gloria". Ma quello che
testimonia la voglia di mondo sta nel finale della lettera, laddove
Giacomo accende il legame d'amicizia: "Le sue lettere m'han dato
animo. Ho veduto che Ella è un signore da sopportarmi, e da acconciarsi
anche ad istruirmi… Mi brillerà il cuore ogni volta che mi giungerà una
sua lettera" (Op. cit. pag. 1020). Ma eccoci finalmente alla lettera
dell'entusiasmo, quella del 30 Aprile 1817: "Oh quante volte,
carissimo e desideratissimo Signor Giordani mio, ho supplicato il cielo
che mi facesse trovare un uomo di cuore d'ingegno e di dottrina
straordinario, il quale trovato potessi pregare che si degnasse di
concedermi l'amicizia sua" (id. pag. 1023). Giordani (ex monaco
benedettino ed ex uomo di legge, liberale e filonapoleonico), che era più
vecchio di Leopardi di ben cinque lustri, comprese subito la grandezza
di Giacomo e lo incoraggiò molto.
Recanati
La prima evasione,
consenziente il padre, avvenne nel 1822: destinazione Roma. Inutile dire
che fu accolto dai vari Angelo Mai, Canova, Cancellieri, e dall'ambiente
letterario romano, con sufficienza. L'odiata Recanati cominciò a fargli
sentire nostalgia di sé: dopo cinque mesi vi fece ritorno. Vi rimase due
anni. Dopo si recò a Milano, via Bologna, presso l'editore Stella che
gli aveva proposto di curare l'opera omnia di Cicerone. Ma anche Milano
gli parve fredda: vi fu accolto con indifferenza. Bologna invece
gli piacque, anche perché fu accolto con calore dal Giordani e dal
Brighenti. Ottenne da Stella di lavorare a Bologna, ma il compenso
percepito non gli bastava per far fronte alle spese (questo sarà un
ritornello che si ripeterà nel corso di tutte le evasioni successive).
Per sua fortuna, alla pensione dove alloggiava, un'ex cameriera gli
offrì il vitto per tutto il tempo della sua permanenza. Montanelli ci
informa che in quel periodo il povero Giacomo, causa il forte freddo,
"lavorava dentro un sacco imbottito di piume". Finito il lavoro tornò a
Recanati, da cui ripartì per Firenze, ove non si trovò bene. Ritornò a
Recanati e poi nuovamente a Firenze.
Il 21 Marzo del '30 prese la
decisione di non tornare mai più a Recanati: lettera al Vieusseux del 9
Febbraio: "Sono risoluto… a Recanati non ritornare mai più. Non farò
distinzioni di mestieri… non guarderò ad umiliazioni; perché non si dà
umiliazione o avvilimento maggiore di quello ch'io soffro vivendo in
questo centro dell'inciviltà e dell'ignoranza europea".
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