EPICURO E L'AMICIZIA

 

 

Forse le parole più belle e ispirate sull'amicizia che ci provengono dal mondo antico le ha scritte Epicuro. Leggiamo ad esempio nello Gnomologium Vaticanum:

Il saggio non soffre di piú se è messo alla tortura che se è messo un amico, e per lui è pronto a morire; perché se tradirà l’amico tutta la sua vita sarà sconvolta e sovvertita per la sua infedeltà.

Non tanto ci occorre aiuto dagli amici, quanto confidare del loro aiuto.

Non è da stimare né chi s'abbandona con facilità all'amicizia né chi esita a farlo. È necessario correre rischi, per amore dell'amicizia.

Di tutti i tesori che la saggezza può ammassare per la felicità, l'amicizia è il più grande, il più inesauribile, il più dolce. Chi è persuaso che nella vita non c'è nulla di più solido dell'amicizia, conosce l'arte di affermare il suo spirito contro il timore dell'eternità o della durata del dolore.

E perfino, con accenti di pura poesia:

L’amicizia percorre danzando la terra, recando a noi tutti l’appello di aprire gli occhi sulla felicità.

Eppure Epicuro vanta il primato del pensatore più frainteso della storia: ancor oggi "epicureo" è sinonimo di "sfrenato gaudente".

La sua stroncatura, o meglio la sua deformazione caricaturale (si ricordi l'autoironico Epicuri de grege porcus di Orazio), comincia già in Roma, soprattutto a causa del disimpegno politico da lui praticato e suggerito, e prosegue con il Cristianesimo, per la sua concezione della mortalità dell'anima e dell'inesistenza di un Aldilà. Il suo pensiero diviene così oggetto di una vera e propria damnatio memoriae, che colpisce sia la sua opera maggiore, il Περὶ φύσεως, sia il geniale poema del suo divulgatore latino, il De rerum natura di Lucrezio, ben più drastico e radicale del Maestro nel denunciare l'utilizzo strumentale della religione e gli orrori del fanatismo religioso. La sua opera rischiò di scomparire del tutto a causa dell'ostilità della Chiesa (evidente nel ritratto che di Lucrezio fa San Gerolamo nel Chronicon), ma paradossalmente fu messa in salvo proprio da qualche monaco amanuense più lungimirante degli altri. La storia della tradizione del testo lucreziano è leggibile qui.

Il pensiero politico-religioso ha quindi buon gioco nel dipingere Epicuro ed i suoi seguaci come dissoluti senza freni e senza princìpi etici, cosa che assolutamente NON furono; ché, anzi, la morale epicurea è così alta da risultare a tratti ascetica.

Il motto stesso per cui Epicuro fu tanto criticato dai Romani, λάθε βιώσας (= "vivi nascosto"), non allude affatto alla necessità di vivere una vita solitaria o di rompere i legami con la società civile, alla maniera dei cinici. Si tratta invece di non ricercare nella frenesia della cosiddetta "civiltà" (νόμος) la felicità e l'autosufficienza che soltanto la vita secondo natura (φύσις) e i legami di amicizia possono assicurare. Epicuro ravvisa infatti nell'amicizia un grande bene, ossia, dal suo punto di vista materialistico, una causa di massimo piacere e felicità. E l'amicizia si realizza pienamente soltanto in una piccola cerchia al riparo dalle tempeste della vita: infatti il ϰῆπος (= Giardino) di Epicuro era un luogo in cui l'amicizia era centrale.

Busto di Epicuro

E' importante sottolineare che l'amicizia è l'unico sentimento coerente con le dottrine epicuree: l'impegno politico va evitato, le passioni anche (in quanto piacere dinamico); di esse fa parte ovviamente anche l'eros, classificato addirittura tra i "piaceri non naturali e non necessari". Tutti i piaceri di questa categoria sono alla lunga nocivi, perché il turbamento che provocano è sempre superiore alla soddisfazione che procurano; in altre parole essi sono destinati, prima o poi, a trasformarsi in dolore.

L'amore è da evitare sempre e comunque, sia come esplosione di cieca irrazionalità, sia, a maggior ragione, quando viene idealizzato (si pensi a Platone, con cui Epicuro è chiaramente in polemica su questo come su altri punti): in quest'ultimo caso è prima di tutto una menzogna, perché non ha di reale altro che la pulsione sessuale dalla quale nasce ed in funzione della quale esiste, mentre tutto il resto deriva dall'immaginazione dell'uomo; inoltre è pericoloso per l'individuo che lo prova, il quale si ritrova avvolto in una rete inestricabile di dipendenze. Ogni forma di dipendenza significa sofferenza, se non nel presente certamente nel futuro, allorché si viene privati della fonte della nostra illusoria felicità: e l'amore, da questo punto di vista, è uno dei falsi bisogni più insidiosi, come dimostra il senso di strazio che prova l'innamorato abbandonato e l’estrema difficoltà che avverte di ritornare ad una disposizione d'animo "normale". Ora, questa sofferenza è la prova evidente che l’amore non è fonte di felicità: infatti la vera felicità non dipende mai da qualcosa di esterno, ma sempre e soltanto dalla nostra disposizione interiore.