E' nel testo arturiano
"Joseph d'Arimathie - Le Roman de l'Estoire du Graal" del 1202,
di Robert de Boron, che il Santo Graal viene descritto come il calice dell'Ultima
Cena, in cui Giuseppe d'Arimatea aveva raccolto il sangue di Gesù
crocifisso. Nuovi elementi in merito li ritroviamo in "Le Grand Graal",
un testo di autore ignoto che continua e integra il racconto
del "Joseph d'Arimathie".
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La visione che emerge da
questo testo
è
probabilmente
la più
interessante:
il Santo Graal viene associato a un libro
scritto da Gesù Cristo, alla cui lettura può accedere solo chi è in grazia
di Dio; le verità che esso contiene, se pronunciate da lingua mortale,
sconvolgerebbero i quattro elementi: i cieli diluvierebbero, l'aria
tremerebbe, la terra sprofonderebbe e l'acqua cambierebbe colore; insomma,
si avrebbe qualcosa
di molto simile
alla fine del
mondo. Il libro-coppa possiede quindi
un temibile potere.
Comunque sia, il calice fu portato in Inghilterra. Perché? Una
risposta
scettica potrebbe
essere che
esso in
qualche
modo "doveva"
essere portato
lì,
dal momento
che proprio
in Inghilterra
è
ambientato
il "ciclo
arturiano",
legato con
la ricerca
del Graal. Ma
i sostenitori della
sua esistenza materiale raccontano a questo proposito una strana storia,
notevole
quanto meno
per la sua disinvolta
noncuranza cronologica: durante la sua permanenza in
Cornovaglia Gesù aveva ricevuto in dono una coppa rituale da un Druido
convertito al cristianesimo e quell'oggetto gli era particolarmente caro.
Dopo la crocifissione, Giuseppe d'Arimatea aveva voluto riportarle la coppa al
donatore, ulteriormente santificata dal sangue di Cristo. Orbene, il Druido in
questione (con grande sprezzo della verosimiglianza cronologica, giacché
ce lo ritroviamo cinquecento anni dopo quale
consigliere di Artù!) era Merlino.
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