Per
confrontare
questa situazione
con una totalmente
diversa, spesso
si fa l’esempio
del Giappone.
Il Giappone
ha un debito
pubblico che
corrisponde
al 240% sul
PIL. La Grecia
quando nel 2010
è entrata
in “crisi” (prescindendo
adesso di soffermarsi
su come si è
arrivati a quella
“crisi”) aveva
un rapporto
di circa il
143 %, nettamente
più basso,
eppure prima
si è
scatenato (è
stato fatto
scatenare) un
panico finanziario
ad alta intensità,
e da tre anni
la Grecia viene sottoposta
a misure di
austerity devastante
che stanno portando
la sua popolazione
alla fame e
alla disperazione.
Il rapporto
debito PIL dell’Italia
è invece
di circa il
130% e anche
da noi, insieme
all’atmosfera
da panico e
psicodramma,
è iniziato
da tempo il
salasso dell’austerity.
Perché
il Giappone,
invece, con
un rapporto
debito PIL del
240%, non solo
non attua politiche
di austerità,
ma può
permettersi
di incrementare
la spesa?
La
risposta starebbe
in due particolarità,
totalmente impensabili
ormai nei Paesi
dell’eurozona:
I
- La
possibilità
di stampare
moneta da parte
della Bank of
Japan.
II
- La protezione
del debito pubblico
da parte dei
cittadini e
degli investitori
interni. In
pratica la quasi
totalità
del debito pubblico
giapponese non
è nelle
mani di gruppi
economici e
bancari esteri,
ma degli stessi
cittadini e
istituzioni
e gruppi interni.
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Lo
yen,
moneta
sovrana
del
Giappone
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V
Facciamo
adesso un breve
excursus.
Prendiamo
la macchina
nel tempo, per
tornare nell’Italia
che aveva da
poco sottoscritto
il Trattato
di Maastricht,
il Trattato
con il quale
abbiamo svenduto
ogni barlume
di sovranità
monetaria e
ci siamo legati
mani e piedi
all’euro e alla
B.C.E.
L’Italia
degli anni ’80
era un paese
ingessato e
corrotto, pieno
di clientele
e con un’alta
inflazione.
Ma era anche
uno dei Paesi
più ricchi
dell’Occidente,
con un livello
di benessere
diffuso e un
sistema produttivo
costituito da
una infinità
di piccole imprese
dinamiche che
lo rendevano
quasi un modello
produttivo.
Agli
albori degli
anni Novanta,
Il 7 febbraio
del 1992 veniva
firmato il Trattato
di Maastricht.
Dieci
giorni dopo,
il 17 febbraio
1992, viene
arrestato Mario
Chiesa a Milano,
e inizia la
stagione di
Tangentopoli.
Viene
spazzata via
una intera classe
politica, corrotta
e affarista
ma intrinsecamente
statalista,
e incapace di
abdicare a visioni
di spesa sociale.
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Andreotti,
Craxi
e Forlani
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Annientati i
partiti politici
maggioritari,
emerge una classe
politica nuova,
fondamentalmente
riconducibile
al centro sinistra
storico, che
stringe un patto
di ferro con
la finanza,
sdoganando per
il governo uomini
come Ciampi,
Dini e Prodi,
e gettandosi
con entusiasmo
sulla via delle
privatizzazioni:
cioè
della svendita
a gruppi di
affari privati
di un immenso
patrimonio economico
pubblico.
Naturalmente
la strada dell’inferno
è sempre
lastricata di
buone intenzioni.
E le privatizzazioni
verranno giustificate
con la necessità
di “modernizzare
lo Stato”, di
rendere “dinamica”
l’economia
e di stabilizzare
il bilancio,
riducendo il
debito pubblico.
Per anni, fino
a tempi relativamente
recenti, per
essere considerati
“moderni” bisognava
dichiarsi favorevoli
alle privatizzazioni,
e sinistra
e destra (nel
frattempo era
sorto il polo
berlusconiano)
facevano a gara
nel definirsi
“i veri privatizzatori”.
La
vendita del
patrimonio pubblico
(privatizzazioni)
era inoltre
uno dei presupposti
per potere entrare
nell’euro.
Il
risultato delle
privatizzazioni:
un immenso apparato
produttivo pubblico
venne svenduto
per due lire
a gruppi di
affari amici
o comunque espressione
di potenti lobby.
Il guadagno
dello Stato
fu minimo, così
come minimo
l'impatto sul
c.d. debito
pubblico. L’affare
per gruppi privati
e affaristici
fu enorme; mentre
ai cittadini
fu riservata
una super inculata,
con l’aumento
dei costi per
servizi che
prima erano
gratuiti o a
un prezzo comunque
“popolare.”
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