Per
Euripide,
come accennavo,
la
prospettiva è
capovolta.
La φύσις è vista con sospetto: lo “stato di natura” è pericoloso e caotico, non sono
ravvisabili in esso leggi giuste o comprensibili, tali da far pensare che la
Natura sia un’emanazione di un qualche Dio.
Di
fronte a questo il νόμος è impotente: non più rispecchiamento (come in Eschilo)
di un ordine divino, ma ridotto a semplice gioco di convenzioni, in cui le
regole sono inventate dall’uomo e di volta in volta diverse, esso non può
difenderci in nessun modo dal potere distruttivo della Natura.
Resta
una sola speranza, che risiede precisamente in ciò che allontana gli uomini
dallo “stato di natura”: il λόγος
.
Esso infatti accomuna tutti gli esseri umani
indistintamente, non è soggetto ad arbitrarietà ed è identico in ogni epoca e
sotto ogni cielo.
Accantonata perciò la tradizionale opposizione φύσις / νόμος, Euripide passa ad analizzare la nuova opposizione: φύσις / λόγος.
La questione si pone in questi termini:
può l’uomo, concretamente, esercitare un controllo
razionale sulla realtà, emancipandosi dai condizionamenti della Natura?
E poiché la manifestazione concreta della razionalità è
l’esercizio della volontà, che è
l’opposto del desiderio e che, sola, consente l'autodeterminazione,
occorrerà verificare proprio questo: se, ed in quale misura, l’uomo sia in
grado di volere.
In un primo momento i
personaggi euripidei appaiono per lo meno consci di ciò che
fanno, sufficientemente razionali da comprenderne il senso; ne sono esempi Medea (il suo lacerante conflitto
interiore dimostra che comprende l’enormità di ciò che intende fare),
Ippolito (Fedra sa perfettamente che
il suo desiderio è sbagliato), Alcesti (l’eroina si rende ben conto
del prezzo enorme che sta per pagare).
Tuttavia il loro esercizio razionale è disturbato
dall’interferenza di emozioni violente (πάθη): l’amore per Alcesti, l’odio per Medea, la passionalità
per Fedra.
Alexandre
Cabanel, Fedra,
1880
In seguito i personaggi
euripidei appaiono sempre meno consapevoli di ciò che fanno:
mentono a se stessi, agiscono in uno stato psichico profondamente perturbato,
hanno improvvise e incontrollabili manifestazioni di irrazionalità; si
vedano ad esempio
Eracle (il punto di svolta della
tragedia euripidea: l’eroe impazzisce all’improvviso e fa l’esatto contrario di
ciò che vuole), Le Fenicie (in cui
pressoché tutti i personaggi agiscono da
forsennati), Oreste (Oreste è un vero e proprio alienato
ed Elettra ne è
plagiata), Le Troiane (la figura di Menelao è a dir
poco ridicola),
Elettra (Oreste ed Elettra si pentono
un attimo dopo avere ucciso la madre e non sanno perché l’hanno fatto),
ma soprattutto soprattutto Le Baccanti,
vero e proprio testamento
spirituale di Euripide.
L’esplosione dell’irrazionalità in Pènteo
avviene per un fenomeno
tutto
interno a lui,
quando "lo Straniero"
(Dioniso, il dio
della Natura e dell'irrazionale)
provoca in lui un
vero e proprio smascheramento
di
tipo freudiano ante
litteram, costringendolo
ad ammettere quello
che Pènteo
non sa neppure di
avere in sé:
un malsano interesse
sessuale
nei confronti di
sua madre, una sorta
di morbosa attitudine
voyeuristica che
lo induce a "voler
vedere" la
madre mentre "fa
sconcezze".
Da questo momento in avanti
Pènteo diventa
un burattino nella
mani di Dioniso,
totalmente impotente e
del tutto incapace
del benché
minimo esercizio
della razionalità;
si lascerà
quindi condurre
sul monte Citerone,
dove la madre
e le zie, confondendolo
con un leone di
montagna, lo uccideranno
e lo faranno a pezzi.
La stessa Agave, la madre
costretta ad uccidere
il figlio, è
inconsapevole di
quello che fa, perché
è preda di
una Madre più
potente, la φύσις,
che ha fin troppo
vistosamente la
partita in mano
e decide la
sorte dei suoi figli
secondo il suo insindacabile
arbitrio.
La conclusione di
Euripide non potrebbe
essere più
amara: l’uomo
non appare in grado di volere ed autodeterminarsi, la partita φύσις
/ λόγος si chiude nettamente a favore della prima. Il
bilancio è totalmente fallimentare.
E'
risibile e insignificante
il danno che il
"figlio",
l'uomo, può
provocare alla "madre",
la natura: è
lei ad avere la
partita in mano,
ed è lei
a provocare
all'uomo danni ben
più gravi
ed irrimediabili.
Ecco
perché in
Euripide, all'opposto
di quanto accade
in Eschilo, è
la madre ad uccidere
il figlio.
Questa
visione della madre-natura
è certamente
debitrice del pensiero
sofistico coevo
(alludo in particolare
ad Antifonte e Crizia),
ma da esso si discosta
nettamente proprio
nella valutazione
negativa della φύσις:
se per Crizia, ad
esempio, è
un bene che il più
forte prevalga sul
più debole
e che si ripristini
la "legge di
natura", per
Euripide, che aborre
la violenza e la
guerra, la natura
è una specie
di mostro cannibale
che si nutre dei
suoi stessi figli,
indifferente al
loro dolore:
non diversamente
da quanto affermeranno,
molti secoli dopo,
Schopenhauer
e Leopardi.
(Fonte:
appunti
presi in classe)
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