"Credevo di
essere il Messia. Potevo entrare in contatto con Dio e decidere il destino dell'umanità.
Altre volte, mi sentivo debole e senza importanza. Nella mia testa squillava
con insistenza un telefono. Rispondevo e mi trovavo a parlare con qualcuno che
mi assaliva con idee opposte alle mie. Udivo voci. In strada vedevo figure
ostili che mi circondavano, e spesso riconoscevo nei miei nemici degli emissari
del comunismo internazionale": a
pagina
31 del Corriere
della Sera
del 29 agosto 1996
Ettore Botti
riportava
queste parole
del matematico
John
Forbes
Nash
jr.,
uno
dei più
grandi geni
della seconda
metà
del Novecento.
Non
è
così
insolito
che
la
perfida ironia
della
sorte
faccia
piombare
una
mente
geniale
nel
buio
della
follia:
solo
per
citare
qualche
esempio
noto,
è
accaduto
a
Nietzsche,
a
Van
Gogh,
a
Nijinskij.
Molto
più
strano,
per
non
dire
unico,
è
che,
raddoppiando
l'ironia,
la
sorte
restituisca
quello
che
ha
tolto
ed
il
malcapitato
si
trovi,
per
così
dire,
a
risorgere
dalle
sue
stesse
ceneri,
senza
che
nessuno
possa
capire
come
ciò
sia
accaduto,
specie
se
si
considera
che
la
strada
della
schizofrenia,
una
volta
imboccata,
è
considerata
senza
ritorno.
E'
questo
che
rende
veramente
incredibile
il
caso
di John Nash.
Ora
la vicenda
di
Nash è
nota anche
al grosso
pubblico
grazie al
film di
Ron Howard
A
beautiful
mind del
2001, tratto
dal libro
Il genio
dei numeri
di Sylvia
Nasar (1998),
che
ne ripercorre
la travagliata
esistenza;
in esso
John Nash
è
interpretato
da Russell
Crowe.
Ma
nel 1996
tutto questo
era di là
da venire
ed ancora
gravava
su Nash
il pesante
sospetto
della follia.
Infatti
l'articolista
commentava
così
le parole
del matematico:
"Che John Nash, grande matematico e premio
Nobel, fosse transitato per i meandri della follia si sapeva. Nell'università
americana è soprannominato il fantasma di Princeton e quando
nel 1994 ottenne il premio per l'applicazione della teoria dei giochi all'economia
riaffiorarono drammatici frammenti del suo passato. Lui non volle parlarne e
rifiutava le interviste con una sola, misteriosa frase: "No, grazie:
ognuno sa quel che sa".
John
Nash
da
giovane...
|
...e
Russell
Crowe,
che
lo
interpreta
sullo
schermo
|
Ma ora il professore è venuto al
congresso mondiale di psichiatria a Madrid e ha trovato il coraggio di
raccontare davanti a centinaia di persone la sua malattia: quindici anni in
preda alla schizofrenia, una lunghissima sofferenza segnata da peregrinazioni e
ricoveri, perdita del lavoro, abbandono della famiglia, emarginazione. John
Nash ha raccontato tutto, senza reticenze e senza finzioni, a partire da quel
1959 quando la sua mente, capace di penetrare i teoremi più
astrusi e risolvere i problemi più complessi, uscì
dal suo
controllo.
Aveva 30 anni, era stato proclamato miglior matematico della nuova
leva mondiale e aveva già elaborato lo studio che gli avrebbe un giorno dato
il Nobel. Ma si ritrovò in Europa, solo, in fuga dagli spettri che l'inseguivano,
a Roma, poi a Parigi e a Ginevra.
"Fu in Italia -
ha ricordato
- che
cominciai a udire lo squillo del telefono. Era un suono che mi rimbombava
dentro di giorno e di notte e mi perseguitavano le visioni. Soffrivo di
continui deliri a sfondo religioso e politico e il delirio è
tremendo, come un sogno dal quale non riesci in alcun modo a svegliarti".
La moglie (e collega) Alicia Larde chiese il divorzio, andandosene con il
figlio piccolo. S'aprì la catena dei ricoveri dopo il rientro negli Usa. La
moglie tornò per aiutarlo, le terapie cominciarono a registrare
effetti duraturi. E nel 1974, finalmente, John Nash tornò se stesso.
Riprese gli studi di matematica, l'impegno a tempo pieno nell'università, la vita familiare. Parlando ai congressisti di Madrid, in piedi, leggermente
impacciato, la voce bassa, il premio Nobel ha voluto lanciare un messaggio di
speranza. Guarire si può.
Ma la sua testimonianza è stata
anche lo spunto per dibattere un tema che da sempre pone interrogativi: la
relazione tra genio e follia e, in particolare, tra follia e approfondimento
delle scienze esatte. Nash e altri relatori hanno citato i casi di matematici
insigni che patirono disturbi mentali. Georg Cantor, A.M. Turing, Emil Post,
maniaco depressivo, Alonzo Church, il creatore del Lambda calculus, afflitto da
ossessioni e stravaganze, e il grande Kurt Godel, che discuteva da pari a pari
con Einstein e morì in manicomio cercando di sfuggire a un immaginario
avvelenatore.
Lo scienzato pazzo non è dunque un luogo comune, una
caricatura da film dell'orrore. Ma perché numeri, formule, calcoli
possono mandare in cortocircuito il cervello?
Forse, si è detto,
perché
la ricerca esasperata della razionalità provoca reazioni nella parte
di noi che non soggiace alla ragione. O forse perché la nostra
fragilità
non resiste al pensiero ultralogico, necessario per la comprensione superiore
del mondo astratto. "In effetti - ha detto Nash - quando cominciai a star
male mi ero tuffato in un progetto troppo ambizioso. Chiedevo troppo alla mia
mente ed ero esaurito fisicamente". E ha parlato del difficile recupero,
del lungo cammino alla ricerca dell'equilibrio perduto: "Ci sono riuscito
a prezzo di grandi sofferenze e devo confessarvi che anche riconquistare la
razionalità dopo essere vissuti nell'irrazionalità
procura dolore".
Il fantasma di Princeton è tornato a vivere felice tra
i suoi teoremi, ma altri, come Emil Post, non hanno potuto. Perse genio e
follia insieme e quando guarì l'atterriva anche una semplice addizione."
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