VINCENT  E THEO VAN GOGH

 

 

La natura della malattia di Vincent van Gogh (1853-1890), che si manifestò prima dei trent'anni, è stata oggetto di numerose ricostruzioni e interpretazioni diagnostiche, fondate soprattutto sulle numerose lettere che van Gogh stesso scrisse al fratello Theo. Questi, di poco minore, era affezionatissimo al fratello e gli rimase sempre vicino, seguendone con amore e dedizione la carriera e mantenendolo economicamente. Fece, non a caso, il mercante d'arte, per poter offrire a Vincent la possibilità di esporre le sue opere.

Ampia è la letteratura riguardante le cause delle malattia di Vincent, le quali suscitano ancora oggi grande interesse (Arnold, 1992; 2004; Blumer, 2002; van Meekeren, 2000; Strik, 1997; Meissner, 1994; Lemke, 1993; Rahe, 1990; 1992).
Nel momento in cui le sue crisi, caratterizzate soprattutto da allucinazioni e attacchi di tipo epilettico, si manifestavano, l'artista "cadeva" in uno stato di profonda depressione, ansietà e confusione mentale, tanto da diventare totalmente incapace di lavorare.
Dapprima si pensò che si trattasse di epilessia, ma questa ipotesi rimane solo in parte convincente in quanto non è provato che van Gogh soffrisse dei sintomi che caratterizzano il "grande male" (convulsioni di tipo motorio, tonico-cloniche), tanto meno delle manifestazioni proprie del "piccolo male" (brevissima perdita di coscienza e della memoria, “absentia” che varia dai 10 secondi ai 2-3 minuti che non si associa con la caduta a terra, ma interrompe improvvisamente qualsiasi azione si stia compiendo, leggere scosse al viso o alle mani ed occhi ruotati verso l’alto).
Questa prima ipotesi diagnostica, d'altro canto, fu probabilmente formulata non in base ai sintomi che distinguevano la sua malattia, ma da ciò che van Gogh stesso disse di sé: "sono un pazzo o un epilettico".

 

 

Vincent Van Gogh, Autoritratto con il cappello nero, 1886

 

Sulla base, soprattutto, delle allucinazioni di cui soffriva e in seguito ad un episodio di paranoia, nel quale fu tormentato dalla convinzione che i vicini lo volessero avvelenare, il grande Karl Jaspers ipotizzò che l'artista potesse essere schizofrenico, ma anche questa supposizione pare soddisfare solo in parte i criteri che rientrano nel quadro della schizofrenia.
Un'ulteriore ipotesi è quella proposta da Arnold (1992), il quale riscontra nei sintomi dichiarati dal pittore una somiglianza con quelli propri di una rara malattia eridataria: la porfiria acuta intermittente. Questa patologia si manifesta in età adulta con attacchi improvvisi, intervallati da periodi di benessere; disturbi gastro-intestinali gravi, neuriti periferiche, disturbi psichiatrici con allucinazioni ne caratterizzano il quadro sintomatologico, che è quello proprio della malattia di van Gogh.
È noto inoltre che, come numerosi artisti dell'epoca (Manet, Degas, Toulouse-Lautrec), anche van Gogh facesse uso di una bevanda alcolica decisamente tossica ma assai in voga nella Francia di quel periodo: l'assenzio. Questo liquore dal colore verde intenso, che diviene giallo se allungato con acqua, si ricava dalla pianta Artemisia absinthium e contiene, oltre all'alcol, alcuni olii essenziali molto tossici, dagli effetti dannosi sul sistema nervoso, come il tuione, in grado di provocare allucinazioni visive ed attacchi epilettici.
Quindi, come sostengono numerosi studiosi (Holstege et. al., 2002; Berggren, 1997; Bonkovsky et al., 1992; Arnold, 1988) l'uso di assenzio e di altre bevande alcoliche, associato ad una cattiva o scarsa nutrizione, devono aver aggravato i sintomi della sua malattia.
Il pittore Paul Signac, amico di van Gogh, raccontò un episodio che sottolinea l'ultimo periodo della vita del grande pittore: "Tutto il giorno mi aveva parlato di pittura, letteratura, socialismo. A sera era un po' stanco. [...] Voleva bere d'un colpo un litro di essenza di trementina, che si trovava sul tavolo della camera".