La leggenda del Grande Inquisitore è
il vero fulcro del romanzo I Fratelli Karamazov (1879): a comporre e
raccontare questa sorta di poema filosofico è il tormentato e ateo Ivan, al quale l'autore affida la
silenziosa contesa tra Cristo ed il suo interlocutore.
Ivan racconta il tutto a suo fratello Aljòsa, che, a differenza di lui,
è profondamente credente. Lo spunto di partenza è la feroce
critica
al
cattolicesimo,
che
per
Dostoevskij,
non
meno
che
per
Nietzsche,
è
il
vero
traditore
del
messaggio
di
Cristo;
ma
da
questa
prospettiva
ristretta
l'autore
si
eleva
ad
un'alta
e
generalizzata
considerazione
delle
contraddizioni
dell'essere
umano.
Si
tratta di
un brano
di incredibile
tensione
morale;
e tuttavia
la parte
più
alta e significativa
dell'episodio
è
a mio parere
il
discorso di
Ivan ad Aljòsa,
che precede
il brano del
Grande Inquisitore:
"Ascoltami: ho
preso il caso dei bambini perché tutto fosse più evidente. Di tutte le altre
lacrime dell'umanità, delle quali è imbevuta la terra intera, dalla crosta fino
al centro, non dirò nemmeno una parola, ho ristretto di proposito l'ambito
della mia discussione. Io sono una cimice e riconosco in tutta umiltà che non
capisco per nulla perché il mondo sia fatto così. Vuol dire che gli uomini
stessi hanno colpa di questo: è stato concesso loro il paradiso, ma essi hanno
voluto la libertà e hanno rubato il fuoco dal cielo, pur sapendo che sarebbero
diventati infelici, quindi non c'è tanto da impietosirsi per loro.
La mia povera
mente, terrestre ed euclidea, arriva solo a capire che la sofferenza c'è, che
non ci sono colpevoli, che ogni cosa deriva dall'altra direttamente,
semplicemente, che tutto scorre e si livella - ma queste sono soltanto
baggianate euclidee, io lo so, e non posso accettare di vivere in questo modo!
Che conforto mi può dare il fatto che non ci sono colpevoli e che questo io lo
so - io devo avere la giusta punizione, altrimenti distruggerò me stesso. E non
già la giusta punizione nell'infinito di un tempo o di uno spazio remoti, ma qui
sulla terra, in modo che io la possa vedere con i miei occhi. Ho creduto e
voglio vedere con i miei occhi, e se per quel giorno sarò già morto, che mi
resuscitino, giacché se tutto accadesse senza di me, sarebbe troppo ingiusto.
Certo non ho sofferto unicamente per concimare con me stesso, con le mie
malefatte e le mie sofferenze, l'armonia futura di qualcun altro. Io voglio
vedere con i miei occhi il daino sdraiato accanto al leone e la vittima che si
alza ad abbracciare il suo assassino. Voglio essere presente quando d'un tratto
si scoprirà perché tutto è stato com'è stato. Tutte le religioni di questo mondo
si basano su questa aspirazione, e io sono un credente.
Ma ci sono i bambini:
che cosa dovrò fare con loro? È questa la domanda alla quale non so dare
risposta. Per la centesima volta lo ripeto: c'è una miriade di questioni, ma ho
preso soltanto l'esempio dei bambini, perché nel loro caso quello che voglio
dire risulta inoppugnabilmente chiaro. Ascolta: se tutti devono soffrire per
comprare con la sofferenza l'armonia eterna, che c'entrano qui i bambini?
Rispondimi, per favore. È del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero
soffrire anche loro e perché tocca pure a loro comprare l'armonia con le
sofferenze. Perché anch'essi dovrebbero costituire il materiale per concimare
l'armonia futura di qualcun altro?
Dürer,
Autoritratto
come Cristo,
1500
La solidarietà fra gli uomini nel peccato la
capisco, capisco la solidarietà nella giusta punizione, ma con i bambini non ci
può essere solidarietà nel peccato, e se è vero che essi devono condividere la
responsabilità di tutti i misfatti compiuti dai loro padri, allora io dico che
una tale verità non è di questo mondo e io non la capisco.
Qualche spiritoso
potrebbe dirmi che quel bambino sarebbe comunque cresciuto e avrebbe peccato,
ma, come vedete, egli non è cresciuto, è stato dilaniato dai cani all'età di
otto anni. Oh, Alëša, non sto bestemmiando! Io capisco quale sconvolgimento
universale avverrà quando ogni cosa in cielo e sotto terra si fonderà in un
unico inno di lode e ogni creatura viva, o che ha vissuto, griderà: "Tu sei
giusto, o Signore, giacché le tue vie sono state rivelate!" Quando la madre
abbraccerà l'aguzzino che ha fatto dilaniare suo figlio dai cani e tutti e tre
grideranno fra le lacrime: "Tu sei giusto, o Signore!": allora si sarà raggiunto
il coronamento della conoscenza e tutto sarà chiaro. Ma l'intoppo è proprio qui:
è proprio questo che non posso accettare. E fintanto che mi trovo sulla terra,
mi affretto a prendere i miei provvedimenti. Vedi, Alëša, potrebbe accadere
davvero che se vivessi fino a quel giorno o se risorgessi per vederlo, guardando
la madre che abbraccia l'aguzzino di suo figlio, anch'io potrei mettermi a
gridare con gli altri: "Tu sei giusto, o Signore!"; ma io non voglio gridare
allora. Finché c'è tempo, voglio correre ai ripari e quindi rifiuto decisamente
l'armonia superiore. Essa non vale le lacrime neanche di quella sola bambina
torturata, che si batte il petto con il pugno piccino e prega in quel fetido
stambugio, piangendo lacrime irriscattate al suo "buon Dio"! Non vale, perché
quelle lacrime sono rimaste irriscattate. Ma esse devono essere riscattate,
altrimenti non ci può essere armonia. Ma in che modo puoi riscattarle? È forse
possibile? Forse con la promessa che saranno vendicate? Ma che cosa me ne
importa della vendetta, a che mi serve l'inferno per i torturatori, che cosa può
riparare l'inferno in questo caso, quando quei bambini sono già stati torturati?
E quale armonia potrà esserci se c'è l'inferno? Io voglio perdonare e voglio
abbracciare, ma non voglio che si continui a soffrire.
E se la sofferenza dei
bambini servisse a raggiungere la somma delle sofferenze necessaria all'acquisto
della verità, allora io dichiaro in anticipo che la verità tutta non vale un
prezzo così alto.
Non voglio insomma che la madre abbracci l'aguzzino che ha
fatto dilaniare il figlio dai cani! Non deve osare perdonarlo! Che perdoni a
nome suo, se vuole, che perdoni l'aguzzino per l'incommensurabile sofferenza
inflitta al suo cuore di madre; ma le sofferenze del suo piccino dilaniato ella
non ha il diritto di perdonarle, ella non deve osare di perdonare quell'aguzzino
per quelle sofferenze, neanche se il bambino stesso gliele avesse perdonate! E
se le cose stanno così, se essi non oseranno perdonare, dove va a finire
l'armonia?
C'è forse un essere in tutto il mondo che potrebbe o avrebbe il
diritto di perdonare? Non voglio l'armonia, è per amore dell'umanità che non la
voglio. Preferisco rimanere con le sofferenze non vendicate. Preferisco rimanere
con le mie sofferenze non vendicate e nella mia indignazione insoddisfatta,
anche se non dovessi avere ragione. Hanno fissato un prezzo troppo alto per
l'armonia; non possiamo permetterci di pagare tanto per accedervi.
Pertanto mi
affretto a restituire il biglietto d'entrata. E se sono un uomo onesto, sono
tenuto a farlo al più presto. E lo sto facendo. Non che non accetti Dio, Alëša,
gli sto solo restituendo, con la massima deferenza, il suo biglietto".
(Fëdor
Michajlovic Dostoevskij, I fratelli Karamàzov trad. di Maria Rosaria Fasanelli,
Garzanti, Milano) |