AMMIANO MARCELLINO, STORICO DI GIULIANO "L'APOSTATA"

 

 

Il grande storico Ammiano Marcellino (330-391), unico degno successore di Tacito, conobbe personalmente Giuliano e combatté al suo seguito nelle campagne contro gli Alamanni e i Sasanidi (dinastia allora al potere in Persia); ammiratore entusiastico dell'imperatore, gli dedicò le pagine più intense della sua opera storica, nota come Res gestae libri XXXI, che descrive gli anni 96-378, riallacciandosi non a caso al punto in cui s'erano interrotte le Historiae di Tacito. Della sua opera sopravvivono soltanto gli ultimi 18 libri. Sebbene nato in Siria da una famiglia ellenofona, Ammiano scrisse la sua opera interamente in latino, in segno di omaggio verso una civiltà i cui princìpi ed i cui ideali egli aveva profondamente fatti propri. La sua attendibilità, il suo acume storiografico e la sua equanimità nel valutare i fatti (incluso il Cristianesimo, del quale non era seguace) sono universalmente riconosciuti dalla critica, che lo considera di gran lunga il più grande storico del IV secolo. La sua scarsa notorietà (anche scolastica) è dovuta probabilmente, più che ad una censura oggigiorno poco sensata nei confronti del massimo cantore delle gesta di Giuliano, al suo latino anomalo ed irregolare, che ha il fascino e i bagliori di un gioiello barbarico; ne sono probabilmente responsabili la sua origine antiochena e la sua non perfetta padronanza della lingua latina. Il risultato è comunque di grandissima originalità e di straordinario pregio artistico.

 

 

Edward Armitage, Giuliano che presiede un convegno di esponenti di sette religiose, 1975

 

Così egli descrive le ultime ore di Giuliano (Res gestae XXV,3,15-23):

 

Quae dum ita aguntur, Iulianus in tabernaculo iacens, circumstantes allocutus est demissos et tristes: "Advenit, o socii, nunc abeundi tempus e vita impendio tempestivum, quam reposcenti naturae, ut debitus bonae fidei redditurus, exulto non (ut quidam opinantur) afflictus et maerens, philosophorum sententia generali perductus, quantum corpore sit beatior animus, et contemplans, quotiens condicio melior a deteriore secernitur, laetandum esse potius quam dolendum illud quoque advertens, quod etiam dii caelestes quibusdam piissimis mortem tamquam summum praemium persolverunt.
Munus autem id mihi delatum optime scio, ne difficultatibus subcumberem arduis, neve me proiciam umquam, aut prosternam, expertus quod dolores omnes ut insultant ignavis, ita persistentibus cedunt. Nec me gestorum paenitet aut gravis flagitii recordatio stringit, vel cum in umbram et angustias amendarer, vel post principatum susceptum, animum tamquam a cognatione caelitum defluentem, immaculatum (ut existimo) conservavi et civilia moderatius, regens, et examinatis rationibus, bella inferens et repellens, tametsi prosperitas simul utilitasque consultorum non ubique concordent, quoniam coeptorum eventus superae sibi vindicant potestates.

Reputans autem iusti esse finem imperii, oboedentium commodum et salutem, ad tranquilliora semper ut nostis propensior fui, licentiam omnem actibus mei exterminans, rerum corruptricem et morum, gaudensque abeo, sciens quod ubicumque me velut imperiosa parens consideratis periculis obiecit res publica, steti fundatus, turbines calcare fortuitorum assuefactus. Nec fateri pudebit, interiturum me ferro, dudum didici fide fatidica praecinente. Ideoque sempiternum veneror numen, quod non clandestinis insidis, nec longa morborum asperitate, vel damnatorum fine decedo, sed in medio cursu florentium gloriarum, hunc merui clarum ex mundo digressum.
Aequo enim iudicio iuxta timidus est et ignavus, qui cum non oportet, mori desiderat, et qui refugiat cum sit opportunum. Hactenus loqui, vigore virium labente sufficiet. Super imperatore vero creando, caute reticeo, ne per imprudentiam dignum prateream, aut nominatum quem habilem reor, anteposito forsitan alio, ad discrimen ultimum trudam. Ut alumnus autem rei publicae frugi, opto bonum post me reperiri rectorem". [...]

Quibus ideo iam silentibus, ipse cum Maximo et Prisco philosophis super animorum sublimitate perplexius disputans, hiante latius suffossi lateris vulnere, et spiritum tumore cohibente venarum, epota gelida aqua quam petiit, medio noctis horrore, vita facilius est absolutus, anno aetatis altero et tricesimo.

Mentre venivano fatte queste cose, Giuliano, che giaceva sotto la tenda, disse a coloro che, avviliti e tristi, lo circondavano: "Adesso giunge, o compagni, il tempo più adatto per allontanarsi dalla vita, che è reclamata dalla natura. Esulto, come colui che sta per restituire un debito in buona fede. Non sono afflitto e addolorato (come alcuni pensano). Sono guidato dalla opinione generale dei filosofi che l'anima sia più felice del corpo. E osservo che, ogni volta che una condizione migliore sia separata da una peggiore, occorre rallegrarsi piuttosto che dolersi. Noto anche che gli dei celesti donarono ad alcuni molto religiosi la morte come sommo premio. Ma so bene che quel compito mi è stato affidato non per soccombere nelle ardue difficoltà, né per avvilirmi, né per umiliarmi. Ho imparato a conoscere per esperienza che tutti i dolori colpiscono chi è senza energia, ma cedono di fronte a coloro che persistono.

Non ho da pentirmi di quanto ho fatto, né mi tormenta il ricordo di qualche grave delitto. Sia nel periodo in cui ero relegato in ombra e in povertà, sia dopo aver assunto il principato, ho conservato immacolata (o almeno così penso) la mia anima, che discende dagli dei celesti per parentela. Ho gestito con moderazione gli affari civili e, con motivate ragioni, ho fatto e allontanato la guerra. Tuttavia il successo e l'utilità delle decisioni non sempre concordano, poiché gli dei superni rivendicano a sé i risultati delle azioni. Reputo che scopo di un giusto impero siano il benessere e la sicurezza dei sudditi.

Fui sempre propenso, come sapete, alla pace. Ho allontanato dalle mie azioni ogni arbitrio, corruttore degli atti e dei costumi.
Me ne vado felice, sapendo che ogniqualvolta la repubblica, come imperioso genitore, mi ha esposto a pericoli prestabiliti, sono rimasto fermo, abituato a dominare i turbini degli eventi fortuiti.

Non sarà vergognoso riconoscere che da lungo tempo ho appreso da una predizione profetica che sarei morto mediante un ferro. Perciò venero il sempiterno nume, perché non muoio per clandestine insidie, o tra i dolori delle malattie, né subisco la fine dei condannati, ma in mezzo a splendide glorie, ho meritato una illustre dipartita dal mondo. E' giudicato pusillanime ed ignavo colui che desidera morire quando non è il momento opportuno e colui che tenta di sfuggire alla morte quando è il momento giusto. Il parlare è stato sufficiente, ora il vigore delle forze mi sta abbandonando.

Per quanto concerne la nomina del nuovo imperatore, ho deciso cautamente di non pronunciarmi. Non voglio omettere per imprudenza qualcuno degno. Né voglio sottoporre a pericolo di vita qualcuno che ritengo adatto ad essere nominato, qualora un altro gli venisse preferito.
Ma come un bravo figlio della repubblica, desidero che si trovi dopo di me un buon imperatore." [...]
Essi tacquero, ed egli discusse approfonditamente con i filosofi Massimo e Prisco sulla sublimità delle anime. La ferita al fianco, dove era stato trafitto, si allargò. Il gonfiore delle vene gli impedì di respirare. Bevve dell'acqua gelida che aveva chiesto. In mezzo al terrore religioso della notte, venne sciolto senza difficoltà dalla vita. Aveva 32 anni.