ALESSANDRO MANZONI, LA MADRE DI CECILIA

 

 

Alessandro Manzoni manifesta ne I Promessi Sposi un senso altissimo della maternità; ne è un esempio la stessa figura di Agnese Mondella, la buona popolana dispensatrice di consigli di saggezza non sempre avveduti (come nel caso del "matrimonio a sorpresa"), ma sinceramente e profondamente affezionata alla figlia Lucia, che la ricambia di pari affetto, e premurosa anche nei confronti del futuro genero Renzo, che considera come un figlio.

Tuttavia l'espressione più toccante e più nobile della maternità che Manzoni ci presenti è senza dubbio la madre di Cecilia.

 

 

 

Alessandro Manzoni in un ritratto giovanile

 

Nel capitolo XXXIV Renzo si sposta dalla campagna alla città fino al Lazzaretto: sono tre tappe di un climax ascendente di orrore. La campagna appare desolata ma ancora abitata, la città devastata e ormai quasi deserta ed il Lazzaretto visto solo da fuori lascia presagire una miseria ancora più grande; ancora una volta la città è per Renzo un luogo ostile e infernale. Le varie scene del capitolo mostrano il dissolversi della civiltà umana di fronte allo strapotere della tragedia, come già nella peste di Atene descritta da Tucidide (Storie II, 47-53) e poi da Lucrezio (De rerum natura VI 1145-1196).

Ma in mezzo al più assoluto degrado morale Renzo assiste ad una fulgida eccezione:

 

Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante; c'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne' cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della madre, con un abbandono piú forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de' volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente quello de' due ch'esprimeva ancora un sentimento.

Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d'insolito rispetto, con un'esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, "no!" disse: "non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete." Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: "promettetemi di non levarle un filo d'intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così."

Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, piú per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l'inaspettata ricompensa, s'affaccendò a far un po' di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l'accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l'ultime parole: "addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri." Poi voltatasi di nuovo al monatto, "voi," disse, "passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola."

Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s'affacciò alla finestra, tenendo in collo un'altra bambina piú piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l'unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l'erbe del prato.

 

La madre di Cecilia giunge per così dire da una sfera superiore: già prima di parlare appare avvolta da un senso di spirituale regalità, riuscendo ad essere capace di sottrarsi alla generale degradazione. L’immagine dei corpi ormai senza vita ammucchiati nei carri sottolinea il livello di un’umanità ormai scaduta, rimarcato dagli “schifosi e mortiferi inciampi” disseminati per le strade e dai sacchi di granaglie cui vengono paragonati i cadaveri riposti sui carri.

Tuttavia persino la morte non riporta una totale vittoria quando viene contrastata dalla ferma integrità morale e dalla pietà dei sopravvissuti.

Il dolore della madre di Cecilia è inimmaginabile, inesprimibile: è il dolore di una madre amorevolissima che vede le sue creature travolte dalla morte, è la disperazione muta di una donna che vede il suo ruolo di datrice di vita azzerato, annientato.

Ma la bambina morta è "tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio".

La forma, che la morte distrugge e riporta a pura materia informe, è difesa strenuamente, al di là di ogni logica. La madre di Cecilia sa che presto la decomposizione del cadavere annullerà questa sua opera di paradossale e inutile difesa della bellezza e del decoro, ma questo non ha importanza: importante è affermare la necessità di difendere questi valori.

La morte può privarci della vita, ma non del rispetto e dell'amore; sta all'uomo mantenere intatto ciò che appartiene solo a lui, ciò su cui la morte non ha potere.

Non un vero e proprio personaggio, quindi, ma una figura emblematica, che resta indelebilmente impressa nella mente del lettore per la sua intensissima carica emotiva, il pathos trattenuto e la profonda dignità di cui dà prova di fronte alla tragedia, diventando in un certo senso l'emblema della resistenza umana di fronte alla dissoluzione di tutti i valori, della vittoria del Bene sul Male, della Vita sulla Morte.

 

(Fonte principale:

http://www.liceoberchet.it/matdidattici/manzoni/captrentaquattresimo.htm)