La fase del pessimismo storico (1816-1820)
Giacomo
Leopardi (1798-1837) si
può a
buon diritto
considerare
un filosofo
che si esprime
in poesia: il
suo pensiero prende l’avvio da una
meditazione sull’infelicità in sé, della quale vengono indagate le
cause, le dinamiche e le conseguenze.
Alla base c’è la teoria dell’amor proprio
(di derivazione illuministica), secondo la quale l’uomo è un essere che
ama necessariamente se stesso e mira alla propria conservazione e alla
propria felicità. L’altruismo è un controsenso: quando io faccio del
bene ad un altro è perché provo piacere, quindi lo faccio sempre a me
stesso. L’altruismo non è il contrario dell’egoismo, ma è una
sublimazione dell’amor proprio, in quanto esistere significa amare se
stesso, cercare la propria felicità. L’amor proprio non coincide con
l’egoismo: quest’ultimo è una degenerazione dell’amor proprio causata
dallo sviluppo della civiltà e dal predominio della ragione; è uno
degli esiti di quel progresso storico negativo, all’indietro, che è,
secondo Leopardi, il passaggio dai primitivi ai civilizzati. L’amor proprio è
fonte di nobili azioni, di sacrifici eroici; l’egoismo, invece, è
calcolo meschino. L’amor proprio è la volontà di potenza dei forti,
l’egoismo è il calcolo razionale del debole che uccide la vita. Leopardi respinge le ideologie ottimistiche e le utopie rassicuranti del suo
secolo, si ribella alla meschinità del suo tempo e alle convenzioni del
suo ambiente, che giudica arido e gretto; rimpiange un mondo mitico di nobili virtù e di valori incorrotti, in cui gloria e fama,
unici antidoti contro il grigiore della vita, erano possibili,
conseguibili. Si scaglia con veemenza contro i miti dell’Ottocento, la
storia e il progresso, e contro la stoltezza di un secolo che dalla
filosofia della storia di Hegel fino al balletto Excelsior esalta l’uomo come creatore della realtà. Per Leopardi
si tratta di un antropocentrismo fanatico, al quale egli si oppone con
forza, affermando che la storia non è progresso, ma regresso dal
primitivo stato di natura, buono e felice, allo stato di civiltà,
corrotto e decadente.
Ritratto
di Giacomo Leopardi
Nella storia del genere umano si distinguono quattro tappe:
1) l’età primitiva, quando gli uomini vivevano in uno stato di perfezione e di innocenza anteriore alla civiltà;
2) l’antichità classica, civiltà che Leopardi ammira come sintesi equilibrata di natura e ragione (nello Zibaldone sostiene la superiorità del politeismo greco-romano rispetto alla religione cristiana);
3) il medioevo,
nel giudicare il quale Leopardi incorre nei tipici luoghi comuni
dell’illuminismo (secoli bui, epoca negativa, trionfo della barbarie);
4) l’età moderna,
con il predominio assoluto della ragione, la freddezza, il
convenzionalismo, il calcolo, la funzionalità, in una parola la vita
inautentica.
Leopardi rifiuta il progresso civile e
tecnologico, convinto che sia negativo in sé, poiché l’incivilimento è
snaturamento, allontanamento dalla natura: il mondo è sempre più
corrotto e non può essere corretto. Netta, quindi, per Leopardi l’antitesi tra la remota grandezza e la miseria morale e materiale odierna.
L’antagonismo di Leopardi
con gli orientamenti spirituali e culturali del proprio tempo si
manifesta anche nell’impegno in favore dei classicisti, i quali devono
assolvere il duplice compito di riproporre i valori classici, che hanno funzione liberatoria e di stimolo delle coscienze, e di scrivere per il proprio tempo (= alfierismo).
Causa della decadenza è la ragione,
"nemica della natura", corruttrice dei costumi, madre della civiltà e
della società con tutti i loro egoismi, distruttrice del rimpianto
mondo eroico. Sogno è ritrovare la "favilla antica", cioè la vivacità
dell’immaginazione, la forza delle illusioni, la vitalità dell’ieri
contro la delusione dell’oggi, attraverso il meccanismo della ricordanza.
Come già il Foscolo, anche Leopardi avverte la necessità delle illusioni
(gloria, amor proprio, amor di patria, libertà, onore, virtù, amore per
la donna), che sono secondo natura e costituiscono l’unico antidoto
agli effetti della civiltà e della ragione, i quali hanno guastato il
mondo moderno, "tristissimo secolo di ragione e di lume"; e come il Foscolo nei Sepolcri, così anche Leopardi concepisce la poesia come stimolatrice di illusioni.
Tutta la storia del genere umano è la storia della lotta tra la
felicità e il vero, tra l’illusione e la realtà, tra la vita e il
sogno. La realtà è banale e cattiva, vere sono solo le illusioni, ossia
le speranze, di cui l’umanità si nutre e che non può abbandonare senza
cadere nella disperazione. "Larve" definisce Leopardi
le illusioni in cui l’uomo crede nella sua età giovanile, ovvero in
quel "sabato del villaggio" che precede il giorno più noioso che è il
giorno della "festa di sua vita"; sono le illusioni che impediscono di
scorgere la tragedia del vivere. E le illusioni rappresentarono
veramente l’unica motivazione alla vita per l’adolescente Giacomo, che
le ricorda con accenti commossi in uno degli squarci più elevati della
sua lirica, i vv. 77-103 delle Ricordanze.
Il
manoscritto
de L'infinito
La realtà è illusoria: manifestando un’evidente consonanza con
Schopenhauer, Leopardi sostiene la coincidenza di vita e sogno, essendo la
realtà niente altro che sogno, come scrive Calderòn de la Barca. Questo
concetto è ribadito nelle opere della maturità (Operette morali e Canti posteriori al ’27). Nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare si legge: "Sappi
che dal vero al sognato non corre altra differenza se non che questo
può qualche volta essere molto più bello e più dolce, mentre quello non
può esserlo mai". E il verso conclusivo di A se stesso ("l’infinita vanità del tutto") sottolinea che il vero è nemico della felicità. Leopardi
mostra qui il suo paradosso: un’educazione illuministica che si rivolta
contro l’illuminismo, un illuminista antiilluminista, un uomo educato
al culto della ragione (che dissipa le tenebre della superstizione e
liquida come favole le verità della religione), il quale distrugge i
miti stessi dell’illuminismo e afferma la superiorità rispetto al vero
di ciò che è pensato, sognato e sperato. Nel Dialogo di Timandro e di Eleandro tale concezione è così espressa: "Si
ingannano grandemente quelli che dicono e predicano che la perfezione
dell’uomo consiste nella conoscenza del vero, e tutti i suoi mali
provengono dalle opinioni false e dall’ignoranza, e che il genere umano
allora finalmente sarà felice, quando ciascuno o i più degli uomini
conosceranno il vero, e a norma di quello solo comporranno e
governeranno la loro vita." Leopardi nega in tal modo l’essenza,
il "vangelo" dell’illuminismo: la felicità è data non dalla conoscenza
del vero, bensì dalla sua ignoranza; sapere di più significa soffrire
di più, e chi aumenta la conoscenza aumenta anche il dolore, come dice
la Bibbia. Tutta la poesia A Silvia esprime in termini altamente lirici questa concezione.
In conclusione, la sostanza del pessimismo storico
leopardiano si esprime in quattro antinomie, nelle quali il primo
termine ha valenza positiva, il secondo negativa:
valenza positiva |
|
valenza negativa |
natura |
vs |
ragione |
antico |
vs |
moderno |
stato naturale |
vs |
società |
illusione |
vs |
vero |
|