ELVIA, MADRE DI SENECA

 

 

La Consolatio ad Helviam Matrem

L'opera fu scritta da Seneca nel 42-43 per consolare sua madre della sua assenza, essendo egli costretto in esilio in Corsica dall'imperatore Claudio. Questo in sintesi il contenuto:

Seneca inizia la consolazione dicendo di aver a lungo meditato se scriverla o meno, perché teme di non ottenere il risultato sperato. Tuttavia afferma che, per poter avere successo, deve rinvigorire il dolore nel cuore della madre, per poterlo poi eliminare. Ammette che questo può sembrare un controsenso, ma è lo stesso metodo usato dai medici.

Dopo aver elencato quindi le sventure capitate alla madre, soprattutto i lutti, le fa presente che egli è in salute e non è infelice, e neanche può diventarlo, essendo seguace dello stoicismo. Seneca è sempre all’erta, non si affida alla buona sorte come non si affida all’opinione comune. Tutti giudicano male l’esilio, ma per Seneca non è altro che un cambiamento di luogo: moltissima gente, trasferendosidi città in città, è come se fosse sempre in esilio; inoltre anche le cose divine sono sempre in movimento e cambiano sempre dimora, tutte le migrazioni di popoli, le conquiste, sono un esilio collettivo; la stessa fondazione di Roma risale ad un esule. Tutto è stato stabilito dal Fato, e quindi nulla può essere male nell’universo.
Quanto alle difficoltà dell’esilio, le necessità per un uomo sono ben poche: per sopravvivere sono sufficienti un riparo dal freddo e degli alimenti; tutto il resto è superfluo, ed anzi, per i più raffinati l’esilio sarebbe la cura ideale per guarire il corpo dagli eccessi.

La condotta di vita sfrenata porta l’uomo a impazzire, perché il desiderio non viene mai appagato, mentre alla ragione e alla natura basta poco. Nessun esilio quindi ha così poche risorse da poter essere considerato un male. Quello che è messo alla prova in esilio è il corpo dell'esule, ma la sua anima no, è libera e vaga per l’universo. Se si è ben temprati, si è pronti ad affrontare tutto quello che verrà, ed un uomo grande resta tale anche se cade.

Appurato dunque che Seneca sta bene, perché piange Elvia? Non per lui, evidentemente, ma per se stessa; quindi la causa del dolore è in lei, è egoistica.

La causa principale del suo dolore è il fatto di aver perduto un sostegno: Seneca rievoca vari e toccanti episodi di vita quotidiana vissuti con la madre ed aggiunge che la sorte l’ha punita ancor di più perché al momento della notizia dell’esilio la madre né era presente, né era preparata all'evento, ma il filosofo la incoraggia: non è certo questo il primo dei mali che lei ha affrontato e sconfitto.

Egli afferma poi che sentire il dolore è giusto e normale, ma esagerare no: occorre dominarlo. Elvia, donna colta e forte, che ha voluto studiare filosofia, che ha sempre condotto una vita nel rispetto di una moralità di stampo virile, non può rinnegarla ora giustificando il suo dolore come "tipico comportamento femminile"; Seneca cita alcuni esempi di madri famose che hanno sopportato stoicamente il dolore ed esorta la madre a fare altrettanto.

 

 

Joseph-Noël Sylvestre, La morte di Seneca, 1975

 

Tuttavia non è aggirando il dolore che si può guarirlo: l’unica via sono gli studi, che fortunatamente Elvia ha già coltivato in gioventù. Non le resterà che rivolgersi nuovamente ad essi.

Non le mancano del resto i sostegni cui aggrapparsi, come i fratelli di Seneca stesso, che onorano la madre e si prenderanno cura di lei, i nipoti, che la fanno divertire con la loro allegria, il padre di Elvia, che sarà sempre un punto di riferimento per lei, e soprattutto la sorella, che è in grado di aiutarla perché è una donna eccezionale, come ha dimostrato quando ha recuperato, nonostante fosse afflitta dal dolore e dalla paura, il corpo del marito morto in mare durante una burrasca. Seneca esorta la madre ad accostarsi a lei ogni qual volta ne sentirà il bisogno ed a seguire il suo esempio. Infine conclude rassicurandola sul suo affetto e sul fatto che il suo pensiero è spesso rivolto a lei: è normale pensarsi a vicenda, ma Elvia non deve pensarlo triste, bensì sereno ed in buona salute. Questo dev'essere sufficiente ad una madre per stare di buon animo.

 

Elvia e Seneca

Il rapporto tra Elvia e Seneca è, come sappiamo, particolarmente stretto: la figura materna ha avuto per il filosofo un'importanza eccezionale, superiore a quella della figura paterna, e l'affetto e la stima del figlio nei confronti di una madre per tanti versi fuori del comune si avverte in ogni pagina della Consolatio.

Tuttavia si esprime in quest'opera la visione forte ed equilibrata dei rapporti umani tipica dello stoicismo, che assume come regola di tutti i comportamenti la razionalità (Lògos); e il rapporto madre-figlio non fa eccezione. Seneca aborre gli eccessi scomposti dell'amore cieco e del dolore sfrenato: quando uno mette al mondo un figlio deve sapere di aver generato un essere mortale, secondo il detto attribuito ad Anassagora; inoltre innamorarsi del proprio dolore è un comportamento tipicamente umano e assolutamente morboso, come fa notare Seneca a Marzia nella Consolatio ad Marciam del 39-40, l'opera che più di ogni altra, più ancora della Consolatio ad Helviam matrem, mette in luce la debolezza del carattere femminile rispetto alla maternità e al dolore.

In tal senso il peggiore esempio che venga in mente a Seneca è quello di Ottavia, sorella di Ottaviano Augusto, la quale, dopo la morte dell'adorato figlio Marcello, si rinchiuse in un cupo dolore e non abbandonò mai le vesti da lutto, concependo un vero e proprio odio per la felicità altrui (Consolatio ad Marciam 2.4-5):

 

Nullum finem per omne vitae suae tempus flendi gemendique fecit nec ullas admisit voces salutare aliquid adferentis, ne avocari quidem se passa est; intenta in unam rem et toto animo adfixa, talis per omnem vitam fuit qualis in funere, non dico non ausa consurgere, sed adlevari recusans, secundam orbitatem iudicans lacrimas mittere. Nullam habere imaginem filii carissimi voluit, nullam sibi de illo fieri mentionem. Oderat omnes matres et in Liviam maxime furebat, quia videbatur ad illius filium transisse sibi promissa felicitas. Tenebris et solitudini familiarissima, ne ad fratrem quidem respiciens, carmina celebrandae Marcelli memoriae composita aliosque studiorum honores reiecit et aures suas adversus omne solacium clusit. A sollemnibus officiis seducta et ipsam magnitudinis fraternae nimis circumlucentem fortunam exosa defodit se et abdidit. Adsidentibus liberis, nepotibus, lugubrem vestem non deposuit, non sine contumelia omnium suorum, quibus salvis orba sibi videbatur.

 

Per tutto il resto della sua vita non smise mai di piangere e di lamentarsi, né accettò di ascoltare alcuna parola che le arrecasse un po' di conforto; non permise neppure di essere distratta dal suo dolore; rivolta ad un solo pensiero e con la mente totalmente fissa in esso, rimase per tutta la vita come lo era stata durante il funerale, non dico senza riuscire a risollevarsi, ma (addirittura) rifiutando di essere tirata su, persuasa che smettere di piangere significasse perdere il figlio un'altra volta. Non volle avere alcun ritratto del figlio tanto amato, non volle che le venisse fatto alcun accenno a lui. Odiava tutte le madri e impazziva di rabbia soprattutto nei riguardi di Livia, perché le sembrava che fosse passata a suo figlio la felicità che lei si aspettava per il suo. Amica soltanto del buio e della solitudine, senza curarsi neppure del fratello, respinse le poesie composte per celebrare il ricordo di Marcello ed altri onori della cultura e chiuse le sue orecchie ad ogni conforto. Appartata dalle cerimonie ufficiali e odiando profondamente perfino la gloria troppo splendente della grandezza fraterna, si seppellì viva e si nascose a tutti. Pur circondata dai  figli e dai nipoti, non depose mai la veste da lutto, non senza un atteggiamento offensivo nei confronti di tutti i suoi: infatti, sebbene essi fossero ancora vivi, lei si considerava sola al mondo.

 

Seneca, contrastando fermamente l'opinione comune, nega che in tutto questo vi sia alcunché di "naturale": infatti la natura, per gli stoici, è Lògos, ed è escluso che dalla razionalità immanente possano derivare comportamenti irrazionali; soffrire troppo è anzi antinaturale, come dimostra l'esempio delle madri animali, che dopo un breve periodo di intensa sofferenza si dimenticano del loro dolore e tornano alla normalità.

Se il dolore perdura per troppo tempo e ci induce all'egoismo, rendendoci inservibili per noi stessi e per il prossimo, è comunque sbagliato ed è da combattere con tutte le forze, a prescindere dal nostro sesso.

Amare una persona significa volere il suo bene, non dipendere da lei; ed il suo bene si realizza quando sta bene fisicamente e spiritualmente: tutto il resto è eccesso e morbosità. In tal senso Seneca si rivela figlio amorevole, affettuosamente presente ma non invadente, preoccupato del benessere della madre nel modo più giusto possibile: ossia, al di là di ogni attaccamento viscerale ed egoistico, attento a far sì che la madre coltivi se stessa in quanto persona ed in quanto essere umano, trovando in questo il necessario equilibrio psichico.

 

(Fonte principale:

http://www.7doc.it/latino/21754-seneca---consolazione-alla-madre-elvia.html)