PIRANDELLO: UNO, NESSUNO E CENTOMILA

 

 

"Come sopportare in me questo estraneo?

Questo estraneo che ero io stesso per me? Come non vederlo?

Come non conoscerlo? Come restare per sempre condannato

a portarmelo con me, in me, alla vista degli altri

e fuori intanto dalla mia?"

 

Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila

 

Come ho detto altrove, "l'esteta è privo di un contenuto reale, della propria soggettività: è qualcosa solamente nell'immaginazione, perché non ha mai scelto se stesso nella realtà. Egli vive nell'orizzonte della possibilità infinita, senza mai compiere il movimento della realizzazione. La sua personalità è perciò dispersa nella molteplicità, l'unità del suo io è illusoria ed evanescente." Questo vale anche per Dorian Gray, la cui indecifrabilità è in gran parte dovuta proprio alla sua individualità labile e incompiuta.

Tutto questo non può non riportare alla mente la profonda riflessione di Luigi Pirandello sul tema della "maschera" e dell'identità individuale, che attraversa in modo più o meno sotterraneo tutta la produzione dello scrittore e culmina nella composizione di Uno, nessuno e centomila.

L’ultimo romanzo di Pirandello, in gestazione già dai primi anni Dieci, ma uscito, dapprima in rivista e poi in volume, solo nel 1926 (Bemporad, Firenze), è intessuto di interrogativi e di esclamazioni sulla scia del passo sopra riportato, interrogativi spesso e volentieri rivolti dal protagonista del romanzo direttamente al lettore, con la precisa volontà di coinvolgere quest’ultimo nella vicenda, che si può senza ombra di dubbio definire "universale".

 

  

René Magritte, Décalcomanie, 1966

 

L'opera riprende e porta alle estreme conseguenze le premesse implicite ne Il fu Mattia Pascal, del 1904. Buona parte della critica (ad esempio Romano Luperini) afferma infatti che uno dei temi portanti di questo romanzo è quello della crisi d’identità, mentre secondo altri critici (come Enzo Lauretta) esso non rappresenta il motivo principale di fondo del romanzo, come invece in Uno, nessuno e centomila; quella di Mattia risulterebbe piuttosto una storia di libertà. Ma il tema della ricerca della libertà, realizzato da Mattia attraverso l'evasione da se stesso, si rivela fallimentare ed approda ad una crisi d'identità: Pascal è un inetto, un velleitario che sogna un’evasione impossibile e che alla fine si trasforma consapevolmente in un antieroe, reso inadatto alla vita pratica dalla sua stessa tendenza allo sdoppiamento, dalla sua propensione a vedersi vivere, insomma dalla sua stessa estraneità nei confronti della vita e di se stesso; Mattia ha un rapporto difficile non solo con la propria anima, ma anche col proprio corpo. Spia di questo malessere è l’occhio strabico, che guarda sempre altrove. La crisi d'identità dipende anche dalla sua duplicità. Romano Luperini inserisce la crisi di identità di Mattia Pascal nel contesto storico-sociale della «modernità», caratterizzata tra l’altro dallo sviluppo caotico delle città, che accentua lo sdoppiamento del personaggio, il quale si trova a vivere sospeso fra il vecchio mondo e il nuovo.

Si può dire che Uno, nessuno e centomila parta dalla conclusione del romanzo precedente e proceda nella direzione di un approfondimento di questo tema.

Vitangelo Moscarda, chiamato dalla moglie Gengè, partendo dalla scoperta di avere il naso lievemente storto, si avventura in una serie di ricerche speculative che lo porteranno alla rovina. Ma si tratta davvero della rovina? La banalissima constatazione, riguardante l’altrettanto banale difetto fisico, gli provoca la consapevolezza di essere visto e giudicato dagli altri in modi molteplici e differenti, di essere visto in "centomila" prospettive diverse e inconciliabili.

Da questo momento egli è assillato dal bisogno di scoprire un’immagine obiettiva di sé.

Nel tentativo di uscire da questa situazione inizia a commettere azioni imprevedibili, capovolgendo le convinzioni che gli altri si sono fatti sul suo conto, scopre contraddittoriamente di saper essere crudele o generoso, disinteressato o egoista, fino a comunicare la propria “pazzia” a un’amica della moglie, che durante un singolare amplesso lo ferisce con un colpo di pistola.

Gengè è nei guai fino al collo, ma anche questa è una “finzione” della società alla quale si oppone. Ritenuto pazzo, finisce in un ospizio, dove continuerà a vivere per il resto dei suoi giorni e nel quale scoprirà di essere amaramente appagato da questa conclusione che “non conclude”, accettando di rinascere «nuovo e senza ricordi: vivo e intero… in ogni cosa fuori», totalmente escluso dalla vita sociale e dalla visione comune degli uomini.

L’alienazione di Moscarda consiste nella totale scomposizione dell’io, nell’impossibilità di calarsi in un qualunque tipo di ruolo, perché la realtà muta incessantemente e nulla può interromperne il flusso ininterrotto.