Una
delle più
singolari ironie
della storia
della censura
letteraria
è costituita
dalla vicenda
di un romanzo
dello scrittore
ferrarese Corrado
Govoni (1884-1965)
che avrebbe
dovuto intitolarsi
appunto
Censura:
romanzo mai
nato, perché
Govoni, quasi
ad avverare
la sinistra
pemonizione
contenuta nel
titolo, incorse
nelle ire della
censura mussoliniana.
A partire dal 1920
Govoni,
già
noto
come poeta futurista
"parolibero", si mise a scrivere quasi
esclusivamente in prosa per un periodo di circa vent'anni.
Durante quel periodo immaginò le vicende del giovane Don Renato in un romanzo che non vedrà mai la luce.
Govoni tentò più volte di dare vita a
quel libro, che considerava un’opera essenziale, ma senza successo. A tutt'oggi
il romanzo non
è
mai stato pubblicato:
esso è
noto soltanto
in forma manoscritta
ed è conservato
nel Fondo Govoni
presso la Biblioteca
Comunale Ariostea
di Ferrara.
Qui sotto ne
vediamo due
pagine:
Credo
che sia interessante
ripercorrere
le linee essenziali
di questa assurda
ma istruttiva
storia.
L’opera
di Corrado Govoni
attraversa una
fase «crepuscolare»
(con la raccolta
Le fiale,
del 1903) e
una fase «futurista»
(con le Poesie
elettriche,
del 1911). Gli
anni 1919-1925
segnano, come
s'è detto, una
svolta.
Tale
mutamento di
rotta nella
poetica dell’autore
coincise in
sostanza con
il suo trasferimento
da Ferrara
a Roma,
già nel
1919: città
dove egli diventò
vicedirettore
della sezione
libro della
SIAE e segretario
del Sindacato
Nazionale Scrittori
e Autori, titoli
di apparente
prestigio ma
che nascondono
una realtà
alquanto più
squallida per
lo scrittore.
Infatti, questi
impieghi da
«protocollista
statale»
furono solo
un espediente
per fronteggiare
le sue difficili
condizioni economiche
che continueranno
anche dopo la fine
della guerra,
e comunque una
fonte di amarezza,
come da lui più
volte ammesso
(per esempio,
nel 1937, Govoni
commenta un
suo disegno
di un millepiedi
come «autoritratto
di impiegato
statale kafkiano»).
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