LA RISCOPERTA DEL "LAMBDOMA" PITAGORICO

 

 

Dopo Keplero, a parte l’opera Musurgia universalis sive Ars Magna consoni et dissoni in decem Libros digesta, pubblicata a Roma nel 1650 dal gesuita Athanasius Kircher, per veder emergere di nuovo concezioni armonistiche nella storia del pensiero occidentale occorre saltare a piè pari l’intero secolo XVIII.

Giungiamo così al filosofo tedesco Arthur Schopenhauer, la cui estetica, com’è noto, riservava alla musica un posto del tutto privilegiato (si veda Hans-Joachim Störig, Kleine Weltgeschichte der Philosophie (tr. it. di Ervino Pocar: Breve storia della filosofia, Martello, Milano 1955). “Perché la musica, nonostante non ci trasmetta immagini di idee come fanno le altre arti, è ugualmente in grado di agire nel nostro animo con altrettanta potenza?”, si domandava Schopenhauer. Ad un tale interrogativo, egli riteneva di dover rispondere interpretando la musica come immagine o analogia diretta della volontà (Wille), ossia di ciò che per lui costituiva l’essenza del mondo.

 

 

Un giovane Arthur Schopenhauer

 

In Il mondo come volontà e rappresentazione, I, 52 il filosofo scrive:

 

Tutte [le arti], infatti, oggettivano la volontà mediatamente, cioè per mezzo delle idee; e dato che il nostro mondo non è se non il fenomeno delle idee nella pluralità, attraverso le forme del principium individuationis (la forma della conoscenza possibile all’individuo in quanto tale), ne deriva che la musica, la quale oltrepassa le idee, è del tutto indipendente anche dal mondo fenomenico, semplicemente lo ignora, e in un certo modo potrebbe continuare ad esistere anche se il mondo non esistesse piú: cosa che non si può dire delle altre arti. La musica è infatti oggettivazione e immagine dell’intera volontà, tanto immediata quanto il mondo, anzi, quanto le idee, la cui pluralità fenomenica costituisce il mondo degli oggetti particolari. La musica, dunque, non è affatto, come le altre arti, l’immagine delle idee, ma è invece immagine della volontà stessa, della quale anche le idee sono oggettità: perciò l’effetto della musica è tanto piú potente e penetrante di quello delle altre arti: perché queste esprimono solo l’ombra, mentre essa esprime l’essenza. [...]

(La musica) esprime, con un linguaggio universalissimo, l’intima essenza, l’in sé del mondo, che noi, partendo dalla sua piú limpida manifestazione, pensiamo attraverso il concetto di volontà, e l’esprime in una materia particolare, cioè con semplici suoni e con la massima determinatezza e verità; del resto, secondo il mio punto di vista, che mi sforzo di dimostrare, la filosofia non è nient’altro se non una completa ed esatta riproduzione ed espressione dell’essenza del mondo, in concetti molto generali, che soli consentono una visione, in ogni senso sufficiente e applicabile, di tutta quell’essenza; chi pertanto mi ha seguito ed è penetrato nel mio pensiero, non troverà tanto paradossale, se affermo che, ammesso che si potesse dare una spiegazione della musica, completamente esatta, compiuta e particolareggiata, riprodurre cioè esattamente in concetti ciò che essa esprime, questa sarebbe senz’altro una sufficiente riproduzione e spiegazione del mondo in concetti, oppure qualcosa del tutto simile, e sarebbe cosí la vera filosofia.

(Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1971, vol. XIX, pagg. 690-691).

 

Attraverso la musica, insomma, parlerebbe la natura più profonda dell’uomo e di tutte le cose che lo circondano. Per questo motivo anche il filosofo di Danzica, assieme a Richard Wagner che più di ogni altro ne adottò i criteri estetici, può essere inserito a pieno titolo nella solco della tradizione pitagorica.

Ma un cambiamento realmente significativo poté verificarsi solo nel 1868, allorché venne pubblicato a Colonia il primo dei due volumi (il secondo uscirà quasi dieci anni dopo, nel 1876) di un’opera intitolata Die Harmonikale Symbolik des Altertums (“Il simbolismo armonicale del Mondo Antico”): autore di quest’opera monumentale, destinata a dare un potente impulso alla ricerca armonistica moderna, era il barone germanico Albert von Thimus, un erudito di cultura enciclopedica che, nell’impegnarsi in tale opera, era mosso da intenti di natura essenzialmente filologica.