AGOSTINO: LA MORTE DELL'AMICO

 

 

Nella cultura cristiana è più difficile, per ovvi motivi, rintracciare quella caratteristica oscillazione tra ἔρως (èros) e φιλία (philìa) che abbiamo visto essere tipica della cultura classica; e tuttavia gli esempi non mancano. Uno, celebre, ci viene da Sant'Agostino.

Nel quarto libro delle Confessioni egli rievoca con sincerità e toccante umanità il mistero di un'amicizia adolescenziale nata dagli interessi comuni e dalla comune adesione ad un ideale: quello dell'eresia manichea. Un'amicizia tradottasi in una dipendenza reciproca a detta dell'autore stesso eccessiva, che poteva cessare solo con la morte di uno dei due. 

E così fu infatti: Agostino, a distanza di molti anni, avverte ancora tutto lo strazio di quella separazione, che considera come un imperscrutabile segno della volontà di Dio, un dolorosissimo mezzo di salvezza, il solo che potesse evitare ai due amici di smarrirsi in un abisso di traviamento reciproco. 

I toni che usa Agostino nei confronti di questo innominato amico vanno ben al di là dei limiti di una semplice amicizia: lo strazio da lui provato è del tutto simile a quello di un innamorato, ad ulteriore riprova del fatto che il confine tra ἔρως e φιλία è a volte così sottile da risultare indefinibile. Ed è notevole il fatto che Agostino non sappia trovare toni simili nei confronti di nessuna creatura di sesso femminile (tranne sua madre Monica, per la quale ovviamente la situazione è diversa).

 

In quegli anni, in cui avevo cominciato a insegnare nella mia città natale, m'ero fatto un amico che gli studi comuni mi rendevano particolarmente caro, mio coetaneo e come me nel fiore della giovinezza. Da bambini eravamo cresciuti insieme, insieme eravamo andati a scuola e insieme avevamo sempre giocato. Ma così amici come allora non eravamo stati mai - un'amicizia, certo, che non era ancora quella vera, perché vera è solo quella che tu stringi fra persone unite a te dall'amore diffuso nei nostri cuori tramite lo Spirito Santo, che ci è stato dato. Eppure era così dolce, come fusa nel fuoco di studi tanto simili. Perché io lo avevo perfino distolto dalla vera fede, che professava da ragazzo benché senza profonda convinzione, per introdurlo a quelle favole ossessive e nefaste che facevano piangere mia madre.

 

 

Ary Scheffer, Sant'Agostino e Santa Monica, circa 1858

 

Ormai la mente di quella persona andava errando con me, e il mio cuore non poteva stare senza lui. E all'improvviso tu c'eri alle spalle e la fuga era vana, Dio delle vendette e insieme fonte di accorate tenerezze, che ci converti a te per vie mirabili: e l'hai spazzato via da questa vita, quando durava solo da un anno la nostra amicizia, dolce per me più di ogni altra dolce cosa di quegli anni.

Chi può contare da solo tutte le tue grazie che in sé solo ha provato? Dio mio, cosa facesti allora? Come è insondabile l'abisso dei tuoi giudizi!

Bruciava di febbre, e restò a lungo incosciente in un sudore d'agonia: siccome non c'era più speranza lo si fece battezzare in stato di incoscienza. Io non me ne curai, nella presunzione che la sua anima avrebbe ritenuto quello che aveva appreso da me, piuttosto che un'operazione fatta sul suo corpo privo di sensi. Ma le cose stavano in tutt'altro modo. Infatti si riprese e sembrò fuori pericolo: e subito, appena potei parlargli - e fu molto presto, appena anche lui fu in grado di farlo, perché non mi allontanavo mai da lui, eravamo troppo legati - tentai, come se anche lui ne avesse voglia quanto me, di farlo ridere di quel battesimo che aveva ricevuto mentre era del tutto privo di sensi e di coscienza. Ma lui aveva già saputo di averlo ricevuto. E trasalendo inorridito come di fronte a un nemico, con una improvvisa libertà di giudizio in lui insospettabile mi avvertì che, se volevo rimanergli amico, dovevo smetterla di parlargli a quel modo. Da parte mia rimasi stupefatto e sconvolto, e trattenni per allora tutti i miei impulsi, per dargli il tempo di guarire e riacquistare le forze, e poi trattarlo come avessi voluto. Ma fu strappato alla mia demenza, per conservarsi in te a mia consolazione. Pochi giorni dopo, in mia assenza, è nuovamente assalito dalla febbre, e muore.

La tristezza calò buia sul mio cuore, e dovunque guardavo era la morte. E il mio paese divenne un patibolo, e la casa paterna m'era penosa e strana, e tutto quello che avevo condiviso con lui, senza di lui si convertiva in uno strazio enorme. I miei occhi lo cercavano invano dappertutto, e odiavo tutte le cose perché non lo tenevano fra loro e non potevano più dirmi "eccolo, viene", come quando era in vita e mi mancava. Ero divenuto un enigma angoscioso per me stesso e chiedevo a quest'anima perché fosse triste e mi opprimesse tanto, e lei non sapeva rispondermi. E se dicevo: "Spera in Dio" lei non ubbidiva, giustamente, perché quella persona concreta che le era tanto cara e che aveva perduta era migliore e più vera del fantasma in cui le si ordinava di sperare. Solo il pianto mi era gradito, e aveva preso il posto del mio amico fra i piaceri dell'anima.