Sintesi dell'elaborazione di supporto relativa alle tematiche

presentate agli esperti nominati del Movimento 5 Stelle

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Indice generale

 

  

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Ritornare alla sovranità

 

Per una politica di piena occupazione

 

Introduzione

 

La crisi finanziaria iniziata nel 2007 con la crisi dei mutui subprime e la successiva crisi europea scoppiata nel 2010 hanno dimostrato al mondo accademico e all’opinione pubblica la presenza di vizi strutturali nell’architettura monetaria dell’Eurozona. Il progetto della moneta unica ha mostrato di non essere in grado di sopportare shock esogeni (come quello proveniente dal settore finanziario americano), gettando le premesse per una gravissima recessione a danno dei Paesi membri.

A poco più di un decennio dalla sua introduzione, l’euro presenta un bilancio disastroso. Lungi dall’aver contribuito alla convergenza delle 17 economie dell’eurozona, o tantomeno averne accelerato una unione politica, la moneta unica ha amplificato gli squilibri macroeconomici dell’area Euro, portando ad un sostanziale peggioramento del tenore di vita prevalentemente dei cittadini dell’Europa meridionale.

La rottura del trait d’union fra il Tesoro di ogni Paese membro e la sua Banca Centrale (e quindi la mancanza del legame stesso con la BCE) ha portato le politiche fiscali dei Paesi ad essere interamente determinate dalle decisioni di portafoglio degli istituti finanziari che intervengono sul mercato primario (Mosler, 1998), dal momento che il fabbisogno dei governi non può essere coperto in via residuale da moneta della Banca Centrale. Ne consegue che, in mancanza di interventi difensivi da parte della BCE, la sfiducia degli investitori nei titoli di Stato di alcuni Paesi può determinare un incremento del rischio di insolvenza per i Paesi stessi, i quali hanno a disposizione esclusivamente la possibilità di offrire rendimenti superiori ai mercati di capitali. La famigerata impennata dello spread nelle battute finali dell’anno 2011 è stata innescata proprio da questo meccanismo.

La perdita della sovranità monetaria per i Paesi membri non li espone soltanto al pericolo della crescita esponenziale dei rendimenti pagati sulle proprie obbligazioni, ma li vincola al perseguimento di politiche economiche disgiunte da obiettivi sociali, e cari invece ai creditori istituzionali. Ne sono un esempio le procedure di riduzione del rapporto debito/PIL operate mediante tagli alla spesa pubblica, aumenti della pressione fiscale ed eventuali dismissioni del patrimonio pubblico; con la speranza di incrementare la fiducia degli investitori stessi nella solvibilità del Paese, la quale si pone necessariamente come massima priorità per qualunque governo nazionale.

Ciò provoca un totale congelamento delle funzioni della politica fiscale; l’impossibilità di effettuare piani d’investimenti pubblici o di detassare redditi d’impresa e da lavoro; la continua riduzione dei fondi a disposizione di tutti i sistemi di erogazione dei servizi pubblici (come sanità ed istruzione). In conclusione, la struttura dell’Unione Monetaria Europea non permette ai Paesi membri di rispondere in maniera anti-ciclica alle crisi periodiche della domanda, incrementando una spirale deflattiva di cui stiamo vedendo le conseguenze.

 


 

Riformare l’architettura monetaria dell’eurozona?

 

Riformare l’architettura dell’eurozona è un’operazione impossibile e, contrariamente a quanto molti osservatori economici suggeriscono, paradossalmente più ardua a livello politico. Un ripristino della sovranità monetaria, anche a livello comunitario, comprimerebbe notevolmente i profitti del settore finanziario sui rendimenti dei titoli di Stato (che verrebbero di conseguenza calmierati secondo esigenze pubbliche), da cui le resistenze di quel settore. Inoltre, consentirebbe di rimuovere gli indirizzi e i vincoli che l’influenza dei mercati dei capitali esercita sulla politica fiscale dell’Eurozona, come ad esempio l’enfasi sulla precarizzazione del lavoro, l’assottigliamento del pubblico impiego e l’alienazione del patrimonio pubblico.

Determinate misure impiegabili al fine di sanare i problemi relativi agli squilibri commerciali fra i Paesi del centro e della periferia al momento non trovano un adeguato consenso politico in Paesi che, come la Germania, hanno costruito una posizione dominante proprio a causa di un surplus commerciale ottenuto anche grazie alla presenza dell’unione monetaria. Qui giace la ragione per cui l’operazione di riforma risulta ardua: il tempo e le energie impiegate per trovare un consenso maggioritario in riforme di tale portata, che senz’altro sono contrarie agli interessi delle classi dirigenti comunitarie, giocherebbero a sfavore delle enormi masse di disoccupati e indigenti createsi con l’architettura tecnico-economica che si è scientemente voluto generare.

Riteniamo quindi le soluzioni di riforma, che al momento sono immaginabili come meri casi di scuola, come un insieme di strumenti volti a “curare un malato terminale con delle aspirine”.

Detto ciò, indichiamo una serie di soluzioni con cui si potrebbe, tecnicamente ed in funzione delle alternative esistenti, tentare di “allentare” l’inevitabile morsa implosiva sottostante alla realtà della moneta unica europea:

1.    Distribuzioni monetarie su base pro capite erogate dalla Banca Centrale Europea. Tale proposta, avanzata dagli economisti Warren Mosler e Marshall Auerback, costituisce un escamotage credibile per ripristinare la percezione di solvibilità nazionale, in modo tale che Paesi come l’Italia possano tornare ad adottare politiche espansive. L’ipotesi è fondata sul particolare status della BCE, l’unica istituzione europea dotata di sovranità monetaria e conseguentemente di solvibilità potenzialmente infinita.

2.   Revisione dei vincoli alla politica fiscale. L’entità massima del rapporto deficit/PIL imposta dai trattati dovrebbe essere almeno raddoppiata e tutto l’apparato giuridico-economico dovrebbe essere orientato al conseguimento del pieno impiego (dovrebbe quindi anche essere modificato lo statuto BCE che non contempla l’obiettivo del pieno impiego parallelamente al mantenimento della stabilità dei prezzi).

3.   Forme di finanziamento tramite la Cassa Depositi e Prestiti. Un’altra delle proposte più discusse dal dibattito politico italiano riguarda l’utilizzazione della Cassa Depositi e Prestiti come mezzo di finanziamento della spesa pubblica; similmente a quanto avviene in Germania, dove la banca Kreditanstalt fur Wiederaufbau (KfW), partecipata all’80% dalla Federazione tedesca, è in grado di finanziare progetti d’investimento pubblico.

4.   Utilizzo di crediti d’imposta e “tax-backed bonds”. Warren Mosler e Philip Pilkington hanno proposto nel marzo 2012 la possibilità di utilizzare i titoli del debito pubblico di un Paese in default come mezzo di pagamento delle imposte. Il meccanismo è il seguente: se un Paese dell’eurozona è a rischio default, cioè non riesce a ripagare un titolo di stato, tale titolo può essere utilizzato da chi ne è in possesso per il pagamento delle imposte in quel Paese.

5.  Circolazione parallela di due valute. L’economista Luca Fantacci e molti altri osservatori economici hanno proposto una riforma dell’unione monetaria che consenta ai Paesi membri di mantenere la propria valuta nazionale in circolazione nel mercato interno ed utilizzare la moneta comune negli scambi esterni. L’euro diverrebbe in tal modo un’unità di conto internazionale per agevolare gli scambi fra Paesi europei (sul modello del “bancor” keynesiano), mentre la nuova moneta nazionale verrebbe emessa da Bankitalia. In tal modo il Paese riacquisterebbe una forma mediata di sovranità.

 


  

L’uscita dall’euro

 

Il vantaggio principale derivante dall’uscita è naturalmente il riacquisto della sovranità monetaria. Come illustrato dai teorici della Modern Money Theory e da economisti eterodossi italiani come Sergio Cesaratto, uno Stato a moneta sovrana non può incorrere in un default involontario sul proprio debito. Ogni promessa di pagamento che lo Stato ha contratto con la moneta della quale di cui detiene il monopolio di emissione, per esempio, relativamente ai propri titoli del debito pubblico, è appunto un impegno a pagare in quella stessa moneta, che lo Stato può emettere liberamente in maniera potenzialmente illimitata.

Non siamo a conoscenza di fattori tecnico-economici negativi relativi all’ipotesi dell’uscita. La possibilità di tornare ad armonizzare le proprie politiche monetarie e fiscali garantisce, di per sé, uno spazio di manovra talmente ampio a livello di politiche pubbliche da rendere i potenziali benefici enormemente superiori ai costi attesi. I fattori che potrebbero concretamente arrecare danni alla congiuntura economica del Paese, in realtà, sono legati alle reazioni dovute al mutato quadro geopolitico; di fronte alle quali lo Stato non sarebbe però privo di strumenti difensivi, al contrario di quanto affermano molti opinionisti di area liberista.

Data l’inesistenza di un percorso giuridico da intraprendere per realizzare un’uscita dall’unione monetaria (un elemento scientemente omesso dai padri della moneta unica), il recesso da quest’ultima deve necessariamente configurarsi come un atto unilaterale del Paese: il governo italiano, disattendendo il Trattato di Maastricht e tutte le altre norme collegate all’istituzione dell’euro, dovrebbe innanzitutto ridenominare la sua spesa e il suo gettito fiscale in una nuova unità di conto.

Analisi empiriche dimostrano che la svalutazione potenziale della nuova moneta nazionale oscillerebbe fra il 25% ed il 35% e che l’impatto della svalutazione stessa sull’inflazione sarebbe di scarsa entità per l’Italia; ne consegue che la maggior parte dei timori legati alla fragilità finanziaria della nuova moneta italiana sono infondati.

In un simile sistema monetario sovrano, le tasse non servono a finanziare la spesa pubblica, ma fanno in modo che la valuta del governo venga accettata. Il governo spende emettendo la propria valuta e non ha nemmeno bisogno di prendere a prestito per farlo.

Non ci sono vincoli finanziari per un governo che emetta la propria moneta, e l’unico vero limite è costituito dalle risorse reali: se si vogliono utilizzare più risorse di quante siano disponibili, il prezzo di queste ultime aumenta e vi sarà inflazione. Il governo allora deve adoperarsi per tassare e per mantenere stabile l’economia.

La spesa pubblica deve essere correttamente indirizzata al fine di realizzare progetti d’investimento a beneficio dell’occupazione. La Modern Money Theory propone un’ampia gamma di programmi, fra cui il più importante è la creazione di Piani di Lavoro garantito (Job Guarantee): l’idea ad essi sottostante è che il governo offra lavoro ad un salario minimo a tutti coloro che desiderano un impiego e sono in grado di lavorare. Sostanzialmente, il governo attingerebbe ad una “riserva di occupati”, assumendo i lavoratori disoccupati quando l’economia è debole e lasciandoli assumere dalle imprese private quando essa è forte. Un programma simile consente il raggiungimento del pieno impiego, assecondando e governando la ciclicità dei trend economici.

 

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