Punto 4

 

 Cosa accadrebbe nel caso di immissione in corso
 di una seconda valuta in Italia.

 

1) La risposta di Economia 5 Stelle

 

2) La risposta di Epic (Economia per i cittadini)

 

 

N.B.: i documenti completi, scaricabili, sono reperibili qui:

http://economiaepotere.forumfree.it/

 

  

La risposta di Economia 5 Stelle

 

 

Premessa

 

Per quanto convinti, come abbiamo detto, che la soluzione ottimale sia l’uscita dell’Italia dall’euro, e che tutte le altre soluzioni siano palliativi temporanei, vogliamo ugualmente prendere in esame le altre soluzioni possibili per alleviare il disagio della permanenza nella moneta unica.

Analizzeremo quindi separatamente:

 

1.      Punto 4a: alcune proposte volte a rendere più sostenibile la permanenza nell’euro;

2.      Punto 4b:  ipotesi di “moneta complementare”, comunque configurata;

3.      Punto 4c: “doppia circolazione” (reintroduzione della lira a fianco dell’euro).

 

 


 

 

4a. Proposte per rendere più sostenibile la permanenza nell’euro.

 

I - Distribuzioni monetarie su base “pro capite”[1]

 

Come ampiamente dettagliato nel documento di Epic (al quale rimandiamo per questo argomento), gli economisti Warren Mosler e Marshall Auerback hanno proposto a più riprese delle forme di distribuzioni monetarie di grande entità erogate annualmente ai Paesi membri su base demografica “pro capite”[2], a cura ovviamente dell’unica istituzione centrale sovrana che attualmente può operare un’emissione di moneta: la BCE.

Il difetto di questa soluzione, a nostro parere, è che, essendo evidentemente nell'interesse di tutti prendere denaro in prestito, si determinerebbe una probabile esplosione di ulteriori bolle speculative, a tutto svantaggio dell’economia reale già duramente provata. Un altro difetto è che essa non impatta sui tassi di cambio reali, il problema centrale degli squilibri intra-eurozona. La nuova liquidità potrebbe scaricarsi in gran parte nell'acquisto dei beni esteri (meno costosi), peggiorando ancora di più la bilancia delle partite correnti e le condizioni del nostro settore industriale.

E’ importante comunque sottolineare, specialmente nell’ottica di una collaborazione con i Parlamentari del Movimento 5 Stelle, che tali erogazioni di contributi non dovrebbero a nostro parere configurarsi come semplici iniziative di sostegno economico: condividiamo infatti la prospettiva MMT là dove si esprime a favore della realizzazione di un progetto di piena occupazione, e non della erogazione di un sussidio di disoccupazione (o reddito di cittadinanza): non si rende un buon servigio né ai disoccupati né alla società mantenendoli in una condizione di estraneità al mondo del lavoro e di effettiva subalternità rispetto a chi ha un impiego. Senza parlare degli effetti psicologici che ricevere un sussidio di disoccupazione può comportare, e del fatto che in periodo di grave crisi molti potrebbero decidere di rinunciare ad un posto di lavoro incerto per mantenere un sussidio magari inferiore ma “sicuro”. Una controprova è che lo stesso vate del liberismo Milton Friedman era favorevole al reddito di cittadinanza, perché dava mano libera alle imprese nell’imporre condizioni di lavoro sempre più disagevoli onde massimizzare profitto e produttività. Qualora ci fossero risorse sufficienti per un reddito del genere, siamo perciò assolutamente favorevoli ad impiegarle in qualcosa di più affine ad un programma di lavoro garantito piuttosto che in un pericoloso reddito di cittadinanza (le ricadute inflazionistiche di una simile incauta tecnica sono ora un grosso problema per Paesi come l’Argentina che, pur animati da ottime intenzioni, la stanno applicando).

 

 

II - Revisione dei vincoli alla politica fiscale

 

Come ormai lampante a tutta la comunità accademica internazionale, i vincoli di Maastricht (60% del rapporto debito/PIL e 3% del rapporto deficit/PIL) rinforzati dal Fiscal Compact e dal Patto di Stabilità non hanno alcun fondamento teorico e stanno costringendo i vari governi ad un’operazione di macelleria sociale sconclusionata ed anti economica di per sé[3]. Il deficit, come s’è detto, dovrebbe essere almeno raddoppiato[4] e tutto l’apparato giuridico-economico dovrebbe essere orientato al pieno impiego (dovrebbe quindi anche essere modificato lo statuto BCE che, come già affermato, subordina dichiaratamente l’obiettivo del pieno impiego al mantenimento della stabilità dei prezzi). Solo l’aumento della spesa pubblica può portare l’Italia a pagare i debiti della pubblica amministrazione puntualmente e senza imporre nuove tasse, il che comporterebbe un grosso incentivo occupazionale, un aumento considerevole del gettito fiscale e della domanda aggregata, e un impatto positivo considerevolissimo sul PIL, pari secondo le stime più autorevoli a 1.7 volte la somma stanziata. Riassume molto bene il concetto l’insigne giurista Luciano Barra Caracciolo dal suo blog[5], quando asserisce che: “[...] rinunziando a distinguere tra moltiplicatore della spesa corrente e quello del public investment, e al periodo, breve o medio, di rilevazione, avevamo ipotizzato[6], focalizzando sui criteri "consolidati di attuazione dell'austerity, un moltiplicatore di circa 1,5 per ogni punto di riduzione del deficit via tagli della spesa. Sapir, usando lo stesso metro - riferimento al punto di PIL di minor indebitamento, però senza troppo distinguere nel mix di tagli&tasse -, ci dice che il moltiplicatore è 1.4, se non di più[7]".

Quindi diamo per buono l'1,5 "medio" in relazione al tipo classico di mix in cui sono FINORA consistite normalmente le manovre e potremmo accreditare, sempre per semplificazione empirica, un moltiplicatore, ad origine FMI, di 0,9 per le misure di imposizione fiscale (nuove tasse o tagli delle stesse) e di 1,7 per la spesa pubblica.”

Riassumendo, l’effetto moltiplicatore sul PIL, in caso di aumento/diminuzione di spesa pubblica, è di gran lunga il più vantaggioso, nemmeno paragonabile a quello basato sulla correzione dell’imposizione fiscale. Per la stessa ragione, tagliare la spesa pubblica senza ricollocare altrove le risorse risparmiate, anche con le migliori intenzioni di ottimizzazione, è una misura fortemente recessiva.

 

 

III - Forme di finanziamento tramite la Cassa Depositi e Prestiti

 

Un’altra delle proposte più discusse dal dibattito politico italiano riguarda l’utilizzazione della Cassa Depositi e Prestiti come mezzo di finanziamento della spesa pubblica. Similmente a quanto avviene in Germania, dove la banca Kreditanstalt fur Wiederaufbau (KfW), partecipata all’80% dalla Federazione tedesca, è in grado di finanziare progetti d’investimento pubblico, la CDP potrebbe disporre di fondi provenienti dalla BCE come una qualunque banca commerciale[8] (si veda anche il punto 2 del presente documento) e finanziare così attività con un minor “peso” sulle regole di stabilità imposte dai trattati.

 

 

IV - La banca centrale italiana deve diventare acquirente residuale dei nostri titoli di Stato sul mercato primario, come la Bundesbank

 

Innumerevoli commentatori hanno da tempo riscontrato una chiara anomalia nel comportamento della Bundesbank in occasione delle aste dei bund[9]. Anzitutto una definizione: un titolo si definisce collocato quando viene sottoscritto per la prima volta. L’ufficio governativo responsabile dell’emissione dei titoli del debito pubblico tedesco è l’Agenzia per il debito (Finanzagentur), la quale gestisce le procedure d’asta e poi trattiene i titoli non collocati presso quella platea di investitori privati che hanno l’accesso riservato al mercato primario, platea costituita da una quarantina di banche e società finanziarie tedesche ed internazionali.

La Bundesbank agisce per conto dell’Agenzia per il debito tedesca in qualità di “banca custode e non di prestatore di ultima istanza”, come sostiene Isabella Bufacchi sul Sole 24 Ore del 26 Novembre 2011: i titoli trattenuti risultano in sostanza congelati presso la banca centrale tedesca, senza che questa corrisponda al governo alcuna somma di denaro in cambio, ossia senza che quei titoli risultino effettivamente sottoscritti. Spiega ancora la Bufacchi: “L’agenzia del debito tedesco riprende poi quei titoli invenduti e li ricolloca in tranche sul secondario, nell’arco di qualche giorno o in casi di mercati ostici di qualche settimana.”

Dunque sembra, a prima vista, che la Germania non stia procedendo alla cosiddetta ‘monetizzazione’ del debito pubblico. La pratica dell’Agenzia tedesca per il debito, consistente nel trattenere una quota dell’emissione, viene dunque presentata dalla Germania, molto semplicemente, come un metodo per procrastinare il collocamento di quei titoli, in attesa di più favorevoli condizioni sui mercati finanziari: una mera questione di tempo, poiché i titoli emessi ma non anche collocati saranno, prima o poi, effettivamente collocati.

Ma la cosa non è affatto limpida, poiché il problema non è tanto sul ‘quando’ i titoli trattenuti verranno sottoscritti, quanto piuttosto sul ‘dove’ quei titoli verranno poi, effettivamente, collocati.

La struttura istituzionale conferita generalmente agli odierni processi di emissione dei titoli del debito pubblico si fonda su una netta distinzione tra il mercato primario, dove i governi collocano i titoli di nuova emissione, ed il mercato secondario, dove i titoli già emessi possono essere liberamente scambiati. Tale distinzione è rilevante, all’interno della cornice istituzionale dell’eurozona, poiché il Trattato di Maastricht (comma 1 art. 101) vieta esplicitamente alle banche centrali dell’eurozona l’acquisto di titoli del debito pubblico dei Paesi membri solamente sul mercato primario: la BCE e le banche centrali dei Paesi membri sono dunque lasciate libere di acquistare titoli del debito pubblico dei Paesi membri dell’eurozona sul mercato secondario, e siamo certi che stiano operando in questo senso quantomeno a partire dal Maggio 2010. Si noti come la chiara distinzione tra mercato primario e mercato secondario, ovvero la regola per cui sul mercato secondario possono essere scambiati solamente titoli già emessi sul mercato primario, sia il presupposto della logica seguita dalle istituzioni europee, le quali prevedono contemporaneamente il divieto imposto da Maastricht, che si riferisce al mercato primario, ed il Securities Markets Programme, che limita al mercato secondario la libertà di intervento delle banche centrali. Nelle parole dell’allora Governatore della BCE Trichet: “le nostre azioni sono pienamente conformi al divieto di finanziamento monetario [del debito pubblico] e dunque alla nostra indipendenza finanziaria. Il Trattato vieta l’acquisto diretto, da parte della BCE, dei titoli del debito emessi dai governi. Noi stiamo acquistando quei titoli solamente sul mercato secondario, e dunque restiamo ancorati ai principi del Trattato”.

Il problema è quindi che la distinzione tra mercato primario e mercato secondario in Germania è quantomeno labile: tramite la quota di titoli di nuova emissione regolarmente trattenuta dall’Agenzia del debito, infatti, la Germania è in grado di collocare i propri titoli del debito pubblico direttamente sul mercato secondario. Ciò è rilevante perché se il mercato primario dei titoli pubblici è esplicitamente riservato, in tutti i paesi dell’eurozona, ad un gruppo di investitori privati, sul mercato secondario operano – accanto agli investitori privati – anche le banche centrali dei Paesi membri. Questo significa che il tasso di interesse che si determina sul mercato primario può essere spinto al rialzo da una carenza di domanda di titoli che non ha ragione di esistere sul mercato secondario, laddove l’azione della banca centrale implica una domanda potenzialmente infinita per i titoli pubblici. La particolare struttura istituzionale del processo di emissione dei titoli pubblici tedeschi sopprime di fatto la distinzione tra mercato primario e mercato secondario, aprendo lo spazio per il finanziamento del debito pubblico tramite la banca centrale – spazio negato agli altri Paesi membri dell’eurozona[10].

Il complesso meccanismo di emissione dei titoli pubblici appena descritto consente alla Germania di proporre, in asta, un tasso d’interesse molto basso: se gli investitori privati si rifiutano di sottoscrivere i titoli del debito pubblico tedeschi a quei tassi, giudicati poco remunerativi, lo Stato trattiene la quota dell’emissione non collocata e procede, successivamente, al collocamento di quei titoli sul mercato secondario, dove l’azione della banca centrale è in grado di orientare i livelli del tasso dell’interesse vigente, o addirittura di tradursi in un intervento diretto, con la Bundesbank che sottoscrive i titoli del debito non collocati sul mercato primario. In assenza di un simile meccanismo, i governi sono costretti ad accettare il tasso di interesse che gli investitori privati pretendono sul mercato primario, laddove la loro disponibilità a sottoscrivere i titoli pubblici rappresenta l’unica possibilità che lo Stato ha di finanziare il proprio debito. L’“eccezione tedesca” può essere concepita come un metodo che permette di aggirare i divieti imposti dal Trattato di Maastricht, e viene da chiedersi per quale motivo gli altri Paesi dell’eurozona non si siano dotati di un simile dispositivo, capace di arginare le pretese dei mercati finanziari internazionali sui rendimenti dei propri titoli pubblici. Si intende che l’Italia dovrebbe fare quanto in suo potere per imitare questa strategia.



V - Deprezzamento del cambio reale italiano e accollo della spesa per interessi da parte della BCE

 

L’economista Gustavo Rinaldi propone, anche nell’ottica provocatoria di vagliare la buona fede dei nostri partner europei, un accorgimento che potrebbe portare un enorme beneficio alla nostra nazione senza bisogno di abbandonare l’UE[11]. Citeremo direttamente il suo contributo:

“Partiamo da un presupposto: in Italia la spesa pubblica non dovuta ad interessi sul debito è minore delle entrate fiscali, e perciò abbiamo un avanzo primario pari a  circa 2% del PIL (in aumento N.d.R.):

 

 

Lo Stato sottrae quindi al sistema il 2% del PIL, e di questo quasi la metà va all’estero (interessi pagati a stranieri).

Noi dobbiamo potere avere conti con l’estero in pareggio strutturale o in lieve surplus, ed abbiamo bisogno di avere tasse equivalenti ai servizi ed ai trasferimenti che lo Stato eroga: nulla più di un bilancio primario in pareggio. In queste condizioni non ci sarà il Paese della cuccagna, non ci sarà un’improvvisa forte crescita, ma ci saranno i presupposti per ripartire.

L’avanzo di 2 punti di PIL significa 30 miliardi di euro, che potrebbe venire speso  in gran parte per ridurre le tasse ed i contributi sui redditi più bassi oppure per eliminare l’IRAP. Ciò renderebbe le assunzioni di disoccupati  più facili, aiuterebbe le famiglie, creerebbe posti di lavoro e darebbe un po' di fiato alla domanda.

Come ottenere questo risultato?

Per quanto riguarda la domanda estera, occorre ridurre l’import ed aumentare l’export: per far ciò noi dobbiamo deprezzare il cambio reale. Dobbiamo ricuperare il 18% perso dal 1999 ad oggi.

Come si può ottenere il deprezzamento del cambio reale italiano in una situazione come quella dell’euro?

a)    Con l’uscita della Germania dall’euro per una giornata ed il rientro con una diversa parità del marco tedesco con l’euro.

b)    Con un decreto tedesco che stabilisca dalla sera alla mattina che tutti i prezzi, conti bancari ed i salari tedeschi andranno aumentati del 6-7 % all’anno per  tre anni consecutivi.

c)    Favorendo l'inflazione in Germania (più salari, meno ore di lavoro, più vacanze).

d)    Trasferendo denaro dalla Germania ai Paesi periferici, in modo tale che questi possano fortemente ridurre le tasse sul lavoro ed i contributi sociali,  i loro costi di produzione e prezzi. In Italia detto vantaggio andrebbe accentuato al sud ed attenuato al nord.

e)    Con la creazione di un bilancio dell’eurozona  considerevolmente maggiore (10% del PIL dell’eurozona).

f)     Con la creazione di un euro della periferia ed un euro del centro (punto 3 del presente documento); detta misura richiederebbe comunque una forte unione fiscale tra i paesi periferici ed un sostanziale bilancio comune (10% del PIL della zona periferica).

Per quanto riguarda la spesa pubblica, l’Italia  potrebbe anche mantenere il bilancio primario in pareggio, ma per farlo avrebbe bisogno che la BCE si accollasse tutta la spesa per interessi, come già fa in parte  la Bank of England nel Regno Unito[12].

A tal fine abbiamo bisogno che la BCE inizi le sue operazioni di acquisto titoli SENZA RICHIEDERE LA FIRMA DI PROTOCOLLI AGGIUNTIVI O CON LA FIRMA DI UN PROTOCOLLO CHE PARLI DI BILANCIO PRIMARIO IN PAREGGIO.

La parola “primario” vale 80 miliardi di euro, più di 5 punti di PIL. In queste condizioni sarebbe perfino possibile rispettare il  Fiscal Compact senza fare macelleria sociale.

Il Governo dovrebbe urgentemente aprire una trattativa con i partners europei su questi temi, facendo presente che se detta trattativa non desse risultati tangibili entro un anno, l’Italia sarebbe costretta a  lasciare l’euro, perché priva di alternative.”

E noi concordiamo su tutto.

 

 

VI - Trasformazione dell’euro in “euro sovrano”

 

La soluzione ottimale nel migliore dei mondi possibili, anche a detta dello stesso Warren Mosler, sarebbe la trasformazione dell'euro in euro sovrano del neo-stato Europa Unita.

Questo però implicherebbe un tale stravolgimento dell’impostazione della BCE e dell'Unione Europea e dei suoi trattati, che è da considerare totalmente irrealistica. Problemi ironicamente esacerbati proprio dall’assurdità sistemica dell’euro stesso.

  


 

 

4b. Immissione di valuta complementare.

 

I - Utilizzo di crediti d’imposta e “tax-backed bonds”

 

Per questa soluzione, elaborata da Warren Mosler e Philip Pilkington[13], si rimanda al Documento di Epic. Qui precisiamo solo che questi BTP "a valenza fiscale" ("tax backed bonds"), definiti da Giovanni Zibordi "BTP a prova di default", all’atto della loro emissione includono nel loro contratto o statuto una clausola del seguente tenore: "In caso di dichiarazione di default, di mancato pagamento da parte dello Stato italiano di parte del capitale di questo titolo, questo bond continuerà a pagare interesse, e il suo valore nominale e gli interessi dovuti su di esso potranno essere usati per effettuare pagamenti di qualunque genere verso lo Stato italiano."

Tuttavia, in seguito ad una discussione chiarificatrice con lo stesso Warren Mosler[14], il prof. Zibordi è in grado di aggiustare il tiro sul possibile utilizzo dei "Mosler bonds".

I "BTP basati sulle tasse" possono essere emessi da subito, ed è facoltà dei singoli governi decidere:

  • che vengano accettati dallo Stato per saldare pagamenti nei suoi confronti solo nella malaugurata ipotesi che esso dichiari un default;
    oppure:
  • che vengano accettati in ogni caso per saldare pagamenti verso lo Stato anche prima e indipendentemente da un default.

In entrambi i casi, come detentore di questi BTP, il compratore sa che avranno sempre un valore molto vicino al valore nominale (100) perché qualunque residente italiano potrà usarli per pagamenti nei confronti dello Stato al loro valore nominale.

 

 

II - La proposta di Marco Cattaneo: Certificati di Credito Fiscale combinati con BOT acquistati dalle banche italiane [15]

 

Con questa soluzione (leggibile separatamente e scaricabile anche qui) si riducono di 100 miliardi le tasse sulle aziende e di 50 miliardi le tasse sul lavoro, agendo direttamente sul cuneo fiscale[16] e creando 150 miliardi di potere d’acquisto immediatamente. Questo senza uscire dall’Euro, senza cancellare o rinegoziare i trattati europei, utilizzando solo i poteri attuali del governo italiano nell’ambito dell’Eurozona.

Come funziona?
Molto semplicemente, il dipendente riceve un’integrazione di reddito sotto forma di Certificati. La misura proposta è il 10%. Se il tuo netto mensile è 2.000 euro, continui a percepire 2.000 euro e, in aggiunta, un Certificato dell’importo di 200 euro (ogni mese).

Il datore di lavoro riceve a sua volta un contributo, sotto forma di CCF, pari al 10% del suo costo totale. Per dare 2.000 euro netti a un dipendente, l’azienda sostiene un costo totale di circa il doppio, 4.000 euro (netto + tasse + contributi sociali ecc.): l’azienda continua a versare 4.000 euro al mese, parte al dipendente, parte al fisco, parte all’INPS. Gli viene però nello stesso tempo assegnato un Certificato di 400 euro di importo.

I CCF assumono valore per chi li percepisce perché sono un equivalente della moneta statale. Lo Stato si impegna ad accettarli, a partire da due anni dopo la loro emissione, per qualsiasi tipo di pagamento dovutogli: tasse, imposte, ticket sanitari, multe ecc.

E se ho bisogno di monetizzarli in anticipo? Il progetto prevede di emettere ogni anno circa 150 miliardi di CCF, che verranno poi utilizzati due anni dopo l’emissione. Ci saranno quindi costantemente in circolazione circa 300 miliardi di CCF: quelli emessi nell’anno in corso e quelli dell’anno precedente. Hanno un valore di utilizzo finale certo, in quanto lo Stato li accetterà illimitatamente. Potranno essere monetizzati in anticipo perché si verrà a creare un mercato, esattamente come per i titoli di Stato: vado in banca e li vendo con un piccolo sconto calcolato con tassi analoghi a quelli di un BOT a due anni.

Il compratore sarà un soggetto che li utilizza, alla data finale, per soddisfare oneri che avrà nei confronti dello Stato.

Ma perché è previsto un utilizzo differito, dopo due anni? Perché se l’utilizzo fosse immediato, sarebbe come attuare subito una forte riduzione delle imposte. Questo graverebbe sul deficit pubblico. Con il differimento, invece, lo sgravio fiscale produce, a parità di condizioni, un aumento del deficit solo dopo due anni: ma a quel punto, proprio grazie alla maggiore disponibilità economica, si è prodotta una forte ripresa e quindi maggiori entrate fiscali, che compensano l’utilizzo dei CCF.

Si produrrà una forte ripresa dell’economia perché circolerà molto più potere d’acquisto, da un lato, e i costi delle aziende si abbasseranno fortemente, dall’altro. Quindi più domanda interna, più competitività nelle esportazioni, possibilità di proporre beni e servizi a condizioni migliori ai clienti sia italiani che esteri.

Soprattutto, i Certificati emessi non sono un incremento del debito pubblico perché non esiste un impegno di rimborso. Lo Stato italiano non darà, alla scadenza, euro a rimborso dei CCF: li accetterà a pagamento delle sue spettanze, esattamente come avviene per la moneta.

I certificati proposti da Cattaneo puntano al fatto che in due anni il reddito nominale dell’Italia cresca di almeno 300 miliardi circa, per cui anche se lo Stato perde 150 miliardi di tasse a regime lo si compensa con l’incremento di reddito (di cui quasi metà finisce in tasse). Semplificando, dopo due anni lo Stato si ritrova 150 miliardi in meno di incassi (tasse): Cattaneo calcola che l’iniezione choc di 150 miliardi l’anno nell’economia produca un reddito nominale addizionale anche di 400 miliardi (in ogni caso più del doppio dei 150 miliardi annui persi di tasse).

Questo discorso sulla riduzione di tasse tramite i CCF va integrato con una adeguata strategia per quanto riguarda i titoli di Stato: infatti il mercato finanzario può ugualmente attaccare l’Italia, poiché vede lo Stato italiano rinunciare a 150 miliardi su 714 di entrate "scommettendo" sul rimbalzo dell’economia per recuperarli in due anni. Si può dunque avere un attacco speculativo sui BTP.

Bisogna dunque smettere, per un certo periodo (indicativamente due anni), di emettere BTP, sostituendoli con BOT, e stipulare un accordo con le banche italiane perché li acquistino all’1% o ad un rendimento leggermente superiore al loro costo medio di raccolta. Questo riduce automaticamente il costo dell’indebitamento e taglia fuori il “mercato”, perché per due anni sono le banche italiane ad acquistare i BOT.

Possono farlo? Certo che sì: i BOT non richiedono capitale addizionale, secondo gli accordi di Basilea.

Per ovviare al potenziale problema di mancanza di fondi per finanziare il rimborso dei CCF dopo 2 anni, potrebbe essere previsto un meccanismo "revolving", che consentisse un "premio" sul nominale in caso di rinnovo del CCF anziché di richiesta di rimborso. In parole povere, a scadenza si può offrire l'opzione di utilizzare i CCF oppure rinnovarli "a premio" (esempio: invece di "incassare" un CCF di 100 €, si può dare l'opportunità di scegliere tra il rimborso o il rinnovo a 110 €, con un premio del 10% sul nominale nel caso in oggetto).

A detta dello stesso Marco Cattaneo, che di recente ha avuto un interessante e costruttivo confronto con Warren Mosler in proposito[17], il ricorso ai CCF non è da considerare un semplice palliativo, ma una vera e propria alternativa all'uscita dall'euro ove questa non risultasse praticabile, quasi altrettanto efficace sul piano economico. Infatti, "grazie al fatto che una parte significativa delle emissioni di CCF riduce il costo del lavoro effettivo per le aziende italiane, è possibile riportarne la competitività ai livelli della Germania. Più in generale, l’emissione di CCF può essere effettuata da tutti i Paesi appartenenti all’eurozona la cui competitività è oggi peggiore rispetto a quella dell’ex area marco. In questo modo, otteniamo effetti di riequilibrio analoghi a quelli che, in un regime di cambi flessibili, sono conseguiti mediante un riallineamento valutario.

I CCF sono quindi uno strumento che:

I.       dà alle economie in situazione di domanda depressa la possibilità di espanderla, e quindi di produrre una forte ripresa dell’attività economica, mediante emissione di uno strumento di natura monetaria;

II.   consente di eliminare le differenze di competitività dei vari Paesi appartenenti all’eurozona, senza passare tramite manovre di deflazione salariale e compressione dei redditi."

In tal senso, osserva ancora Cattaneo, essi sono "una soluzione sostenibile nel tempo, appunto in quanto rimuovono le due principali cause di inefficienza del sistema euro.

E’ vero che, successivamente all'introduzione dei CCF, saranno necessarie azioni di “fine tuning” per tener conto dell’evoluzione delle variabili economiche - tra cui future ulteriori differenze di competitività che venissero a determinarsi all’interno dell’eurozona: per esempio modificando la dimensione delle emissioni di CCF, l’allocazione tra imprese e lavoratori, le caratteristiche di progressività, eccetera; ma questo rientrerà in un normale processo di gestione della politica economica italiana (e degli altri Paesi che adotteranno lo strumento CCF).

Resta peraltro aperta anche la possibilità che, nel giro di qualche anno, l’utilizzo dei CCF si incrementi (ad esempio, quote di spesa pubblica potrebbero essere pagate con CCF di nuova emissione, via via che aumenterà la consuetudine e l’accettazione del pubblico). I CCF possono quindi anche essere uno strumento propedeutico all’uscita dall’eurozona, mediante un meccanismo graduale e senza le complicazioni organizzative, tra cui la necessità di procedere in segretezza, che un break-up “secco” necessariamente implica."

La conclusione di Cattaneo è che "il progetto CCF risolve entrambi i problemi fondamentali dell’attuale assetto dell’eurozona: permette di attuare, nei Paesi in difficoltà, politiche di sostegno della domanda finanziate da espansione monetaria; e riallinea la competitività dei vari Paesi con un’efficienza simile a quella consentita da un regime di cambi flessibili.

Inoltre, lascia aperta la strada dell’uscita dell’eurozona, e consente di attuarla in forma “morbida” e non caotica."

 

 

III - Emissione di soli BOT acquistati dalle banche italiane all’1%

 

L’accorgimento è suggerito da Giovanni Zibordi[18]. Come noto, i BOT costano sempre un quinto dei BTP a lunga scadenza, per cui automaticamente riducono il costo degli interessi dell’80%. In base agli accordi di Basilea, i BOT non richiedono capitale addizionale alle banche, e se si offre un rendimento appena sopra il costo della raccolta non si aggravano i loro bilanci. La logica è che, poiché oggi le banche di fatto sono garantite in tre o quattro modi diversi dagli Stati, possono ricambiare il favore aiutando ad aggirare il vincolo del mercato finanziario.[19]

 

 

IV - Finanziamento diretto dei deficit pubblici con prestiti bancari (come in Cina)

 

Anche questo accorgimento è suggerito da Giovanni Zibordi. La Cina finanzia i deficit pubblici (dei governi locali, che però rappresentano il 50% del PIL) direttamente con prestiti bancari all’1%. Questo era il sistema che usava in realtà anche la Germania negli anni ’70.

In pratica il Tesoro italiano dovrebbe farsi erogare prestiti all’1% circa[20], con scadenza due-­tre anni, da Intesa, Unicredit, Ubi Banca o anche semplicemente dalla Cassa Depositi e Prestiti. Si veda in proposito l’articolo del 2011 di Richard Werner[21], l’economista che ha inventato nel 1996, quando era in Giappone, la politica di "Quantitative Easing" (Alleggerimento Quantitativo) che adottano ora Inghilterra, America e Giappone.

 

 

V - “Moneta dei cittadini” da affiancare all’euro

 

La proposta, caldeggiata fra gli altri dai nostri esperti Guido Grossi, Valentino De Santi, Davide Gionco, è quella di dotare per legge i Comuni singoli o associati del potere di utilizzare una “Moneta Complementare” (La Moneta dei Cittadini), da affiancare all’Euro.

Tale moneta dovrebbe avere circolazione esclusivamente territoriale, per rendere evidente che non è in competizione o in sostituzione dell’Euro, che resta (fino all’uscita) l’unica moneta a corso legale.

La Moneta dei Cittadini potrà essere utilizzata per soddisfare le esigenze che sono oggi precluse dal patto di stabilità. Gli enti locali potrebbero quindi utilizzare tale moneta nei pagamenti territoriali, in misura che, a seconda dei casi, può essere integrale o parziale (100% oppure x%, con la restante percentuale in Euro). Essa svolgerebbe fra l’altro una importante funzione educativa nei confronti delle comunità territoriali chiamate a gestire una loro moneta, facendo toccare con mano ai cittadini quanto sia assurdo aver consegnato la gestione della finanza ad un sistema privato ed internazionale, lontanissimo dal considerare e soddisfare i bisogni della collettività.

I campi in cui può essere utilizzata sono:

- pagare lavoro e investimenti produttivi nel proprio territorio

- sostenere un livello minimo di servizi sociali essenziali

- raccogliere tasse e tributi, anche di scopo.

La gestione deve avvenire in maniera partecipata fra le amministrazioni e le realtà associative del territorio.

Deve essere chiaro che le comunità locali possono raggiungere egualmente questo obiettivo per via legale utilizzando il potere negoziale dei privati, creando cioè apposite realtà associative di scopo nelle quali gli associati si impegnano ad accettare la moneta complementare.

E’ peraltro evidente che una legge nazionale che riconosca ufficialmente questa possibilità e di fatto la incentivi, sarebbe di grande aiuto soprattutto per superare gli ostacoli di ordine psicologico e lo scetticismo che oggi rende di difficile attuazione tali iniziative.

 


 

 

4c. Immissione di nuova lira sovrana a fianco dell’euro.

 

I - Circolazione parallela di due valute

 

Anche per questo provvedimento, suggerito dall’economista Luca Fantacci[22] e da molti altri osservatori economici, si rimanda al Documento di Epic.

 


 

L’andamento dei Key Performance Indicators

 

Anche qui, impossibile a dirsi con certezza, dal momento che dipenderebbe da quali e quante riforme di quelle elencate verrebbero implementate. Di sicuro ogni soluzione che comporti il non uscire dall’euro e dai trattati europei avrebbe le stesse limitazioni viste al punto 1 in termini di democrazia, spesa pubblica e rapporti con l’estero.

Tuttavia, le soluzioni basate su moneta alternativa, ccf, barter etc. consentirebbero di alleviare i problemi di credit crunch delle aziende e di calo della domanda interna, con effetti benefici sul PIL e sull’occupazione, che non aumenterebbero ma neppure calerebbero, visto che le aziende riuscirebbero a reggere meglio al credit crunch e a scambiarsi beni e servizi anche senza disponibilità finanziaria. Chiaro, sarebbe un aiuto di poco conto (perché la moneta alternativa comunque potrebbe rappresentare una piccola percentuale delle transazioni, 5 o 10% al massimo), però certamente sarebbe una misura che proteggerebbe i prodotti e servizi nazionali. Tuttavia ciò potrebbe darci sollievo al max per un paio d’anni, prima del crash totale, oppure accompagnare la procedura di uscita dall’eurozona per un periodo limitato. Dopo, tale misura perde completamente di significato in presenza di una vera politica monetaria per piena occupazione e welfare, gestita con i crismi descritti nel punto 2 e nel punto 5 del documento.

Per le KPI post uscita dall’euro si rimanda al punto 5 del documento.

 


 

La risposta di Economia 5 Stelle

 

Va specificato che qualsiasi proposta di moneta complementare o di doppia circolazione non può essere risolutiva del problema principale, ma va vista solo come uno strumento utile a rafforzare la capacità di resistenza del tessuto economico durante la fase di decisione e di transizione dalla situazione attuale, che è insostenibile e destinata a peggiorare senza interventi che la traghettino verso un diverso equilibrio. Questa fase potrebbe infatti essere non brevissima.

Si tratta dunque di palliativi, che acquisirebbero molto più senso se visti come provvedimenti-salvagente per proteggerci dalle incertezze e rigori di un’eventuale procedura di uscita dall’euro. Diversamente si teme che concentrarci su queste proposte ci faccia perdere di vista l’obiettivo principale, che vediamo essere una riforma sostanziale dei trattati europei con l’uscita dall’eurozona come unica alternativa. La sola proposta che tenga conto di questo obiettivo è quella dei CCF di Marco Cattaneo, che, come detto, può configurarsi anche come strumento propedeutico all’uscita dall’eurozona.

Una situazione di doppia circolazione lira sovrana-euro potrebbe essere invece un valido transitorio verso il ritorno alla completa sovranità monetaria, con l’euro che verrebbe trattato come una qualunque valuta straniera.

 

 



[1] Warren Mosler - Marshall Auerback:

http://www.huffingtonpost.com/warren-mosler/greece-debt-crisis_b_887540.html
http://www.nakedcapitalism.com/2011/09/marshall-auerback-the-ecb-v-germany.html

 

[2] Redistribuzione in funzione del numero di persone in un Paese.

 

[3] L’economia dovrebbe tendere al pieno impiego per poter ottenere un maggior quantitativo di redditi redistribuibili. Sull’abbandono del pieno impiego Kalecki ha scritto molto:

[4] Warren Mosler: http://www.youtube.com/watch?v=pQmUZJ0NkTAIn un mondo perfetto, se la BCE garantisse il debito e se fossero consentiti deficit per combattere la disoccupazione, se il patto di stabilità imponesse deficit del 6-7%, allora consiglierei di restare nell’euro [...]”.

 

[8] art.123 comma 2 del TFUE “Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea”:

 

[10] L'atteggiamento della BCE (e della Bundesbank), che distinguono fra mercato primario e mercato secondario, sostenendo che se la banca centrale compra sul primario viola i trattati, ma se compra sul secondario non li viola più, è una sonora ipocrisia. Che compri sul primario, oppure dopo qualche giorno sul secondario, la sostanza è che la moneta della Banca Centrale sostiene la spesa dello Stato.

In realtà dovremmo "godere" anche noi di questa interpretazione, ed obbligare la Banca d'Italia ad acquistare sul secondario bot, btp e cct.

  

 

[16] Il cuneo fiscale o cuneo contributivo è rappresentato dalla differenza tra l'onere del costo del lavoro e il reddito effettivo percepito dal prestatore d'opera o lavoratore. In pratica è la differenza tra quanto pagato dal datore di lavoro e quanto incassato effettivamente dal lavoratore, essendo il restante importo versato al fisco e agli enti di previdenza e pensionistici (INAIL, INPDAP, INPS) tramite imposte contributive. 

 

[17] http://bastaconleurocrisi.blogspot.it/2013/06/una-conversazione-con-warren-mosler.html

 

[18] http://www.truccofinanza.it/finanza/la-soluzione-al-problema-del-debito/

 

[19] Facciamo tuttavia notare che sostituire i BTP con BOT può presentare una serie di problemi: essi infatti riducono la durata media del debito, per cui si devono fare aste più spesso e di valore più elevato. Circa il fatto che le banche possano ricambiare i favori ricevuti, occorre sottolineare che oggi esse sono in forte difficoltà a causa del costante aumento delle sofferenze: bisogna tenere conto della salute dei loro asset prima di procedere. Il rischio sarebbe un crack, con annesse spese di nazionalizzazione, e una misura del genere impatterebbe fortemente sui requisiti di liquidità di Basilea 3. Una cosa è ciò che dovrebbe essere, altra cosa è ciò che si può fare. Un'eventualità del genere potrebbe portare alla necessità di salvataggi pubblici di molte banche italiane. E, ammesso che una nazionalizzazione forzosa sia quello che vogliamo, all'interno dell'euro semplicemente non abbiamo i soldi per poterla fare.

 

[20] L'articolo di Werner citato di seguito parla in verità di 3%, una percentuale più ragionevole, considerati i costi di raccolta e la necessità di riparare le balance sheet del settore bancario.

 

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