Punto 1

 

Cosa succede se il nostro Paese rimane nell'euro così com'è.

 

 

1) La risposta di Economia 5 Stelle

 

2) La risposta di Epic (Economia per i cittadini)

 

 

N.B.: i documenti completi, scaricabili, sono reperibili qui:

http://economiaepotere.forumfree.it/

 


 La risposta di Epic (Economia per i cittadini)

 

 

Analisi della situazione economica

 

A poco più di un decennio dalla sua introduzione, l’euro presenta un bilancio disastroso. Lungi dall’aver contribuito alla convergenza delle 17 economie dell’eurozona, o tantomeno averne accelerato una unione politica, la moneta unica ha amplificato gli squilibri macroeconomici dell’area Euro, portando ad un sostanziale peggioramento del tenore di vita prevalentemente dei cittadini dell’Europa meridionale.

La rottura del trait d’union fra il Tesoro di ogni Paese membro e la sua Banca Centrale (e quindi la mancanza del legame stesso con la BCE) ha portato le politiche fiscali dei Paesi ad essere interamente determinate dalle decisioni di portafoglio degli istituti finanziari che intervengono sul mercato primario (Mosler, 1998), dal momento che il fabbisogno dei governi non può essere coperto in via residuale da moneta della Banca Centrale.

Ne consegue che, in mancanza di interventi difensivi da parte della BCE, la sfiducia degli investitori nei titoli di Stato di alcuni Paesi può determinare un incremento del rischio di insolvenza per i Paesi stessi, i quali hanno a disposizione esclusivamente la possibilità di offrire rendimenti superiori ai mercati di capitali. La famigerata impennata dello spread nelle battute finali dell’anno 2011 è stata innescata proprio da questo meccanismo.

 



Figura 2: L’impennata dello spread fra BOT italiani e BUND tedeschi nel 2011

(fonte: http://maxsomagazine.blogspot.it/2012/01/landamento-dello-spread-nel-2011.html).

 

La perdita della sovranità monetaria per i Paesi membri non li espone soltanto al pericolo della crescita esponenziale dei rendimenti pagati sulle proprie obbligazioni, ma li vincola al perseguimento di politiche economiche disgiunte da obiettivi sociali. Ne sono un esempio le procedure di riduzione del rapporto debito/PIL operate mediante tagli alla spesa pubblica, aumenti della pressione fiscale ed eventuali dismissioni del patrimonio pubblico; con la speranza di incrementare la fiducia degli investitori stessi nella solvibilità del Paese, la quale si pone necessariamente come massima priorità per qualunque governo nazionale.

Ciò provoca un totale congelamento delle funzioni della politica fiscale; l’impossibilità di effettuare piani d’investimenti pubblici o di detassare redditi d’impresa e da lavoro; la continua riduzione dei fondi a disposizione di tutti i sistemi di erogazione dei servizi pubblici (come sanità ed istruzione). In conclusione, la struttura dell’Unione Monetaria Europea non permette ai paesi membri di rispondere in maniera anti-ciclica alle crisi periodiche della domanda, incrementando una spirale deflattiva di cui stiamo vedendo le conseguenze.

Un’altra importante criticità dell’architettura monetaria dell’Eurozona è rappresentata dalla cessione della gestione della politica monetaria da parte delle Banche Centrali nazionali alla Banca Centrale Europea. Una gestione discrezionale dei tassi di cambio da parte dei Paesi europei potrebbe essere utilizzata dagli stessi in reazione a shock asimmetrici, per evitare che essi si scarichino sui redditi ed eventualmente dare impulso alla competitività esterna senza penalizzare fortemente i salari.

 

 

 

 

Figura 3: Saldi della bilancia commerciale dei principali Paesi membri in % del PIL al 1997 (fonte: S. Bell Kelton)

 


 

Figura 4: Saldi della bilancia commerciale dei principali Paesi membri in % del PIL al 2001 (fonte: S. Bell Kelton).

 

  

 

 

Figura 5: Saldi della bilancia commerciale dei principali Paesi membri in % del PIL al 2002 (fonte: S. Bell Kelton).


 

Figura 6: Saldi della bilancia commerciale dei principali Paesi membri in % del PIL al 2011 (fonte: S. Bell Kelton)

 


Al contrario, le istituzioni economiche europee hanno indotto i Paesi membri a praticare politiche di deflazione salariale per favorire la competitività, premiando chi, come la Germania, è riuscito a far crescere i salari meno velocemente rispetto alla crescita della produttività[1]. Venuto meno lo strumento della svalutazione monetaria per i Paesi della “periferia”, tale meccanismo di abbattimento dei costi industriali ha garantito ai Paesi del “centro” una condizione persistente di esportatori netti.

 

Figura 7: L’andamento dei salari reali europei (prezzi del 2000). Fonte: OECD.

 

 


Ciò ha quindi generato incrementi della disoccupazione in tutta l’area euro (Germania esclusa), come mostra il seguente grafico:

 

 

 

Figura 8: L’andamento del tasso di disoccupazione in Europa e successive previsioni
operate dal Fondo Monetario Internazionale.

 

 

 


Di conseguenza, vi è stata una contrazione della produzione industriale che non ha però coinvolto la Germania (se si escludono gli effetti della crisi dei mutui subprime USA), come indicato dalla Figura 9:

 

 

 

Figura 9: Produzione industriale nell’Area dell’euro (fonte: ISTAT ed EUROSTAT).

 

 

 

Il fatto che la stessa Germania sia quasi esclusa da ogni accadimento precedentemente descritto, deriva dal forte impulso che hanno avuto le sue esportazioni nette all’interno dell’area euro.



 


L’andamento dei Key Performance Indicators restando nell’UME

 

Ciò che accadrebbe ai vari KPI (Key Performance Indicators) non è di semplice determinazione, ma dato il trend delineato nelle figure precedenti, non c’è da ritenere che questo possa migliorare, alla luce, soprattutto, dell’aggravarsi delle situazioni debitorie dei vari paesi del sud dell’Unione Europea (PIIGS) nei confronti di quelli del nord Europa, che hanno rappresentato, e rappresentano, gran parte dei saldi positivi delle bilance dei pagamenti di quest’ultimi. 

 

  • Debito Pubblico. Le ultime previsioni governative, datate 10 aprile 2013, rivedono al rialzo la stima circa il livello del debito pubblico nel 2013, che si attesterebbe sul 130.4% del PIL, mentre forniscono un dato del 129% del PIL per il 2014, contro la precedente stima del 123.1%.[2]
  • Debito Privato. Peggioramento in funzione della necessità di sopperire a diminuzioni del risparmio privato, causate da prelievi fiscali crescenti e dismissioni di beni pubblici[3].
  • Welfare, istruzione e sanità: data la minor presenza dello Stato nell’economia, queste dimensioni sono le prime a risentirne in maniera tangibile. Del resto, ricordando le parole di Mario Draghi, presidente della BCE e probabilmente fra i policy makers più influenti d’Europa, il Welfare State è “superato”[4].
  • Spesa pubblica: la componente prevalente delle uscite pubbliche, ovvero la spesa in salari, è destinata ad essere compressa, mentre potrebbe aumentare la spesa dovuta agli interessi crescenti qualora vi fosse una crisi debitoria simile a quella avvenuta nel 2011.
  • Bilancia commerciale: a causa del crollo delle importazioni, dovuto al collasso della domanda interna, e l’incremento atteso della domanda esterna dei Paesi extra-UE, le istituzioni europee prevedono un assottigliamento del deficit di partite correnti, con una sostanziale tensione verso il pareggio.
  • Inflazione: a causa degli aumenti nel prezzo del petrolio e degli incrementi della tassazione, l’indice dei prezzi al consumo è aumentato nel corso del 2012, ma per la fine del 2013 si prevede un calo del tasso d’inflazione fino al 1.5%.
  • Occupazione: il crollo continuato della domanda aggregata non può che continuare a deprimere la capacità delle imprese di assumere. Secondo le ultime previsioni OCSE[5], per il 2014 è previsto un aumento del tasso di disoccupazione fino all’11.8%; e una variazone del -0.4% del tasso di occupati.
  • Green economy: data la depressione in cui la domanda aggregata verrà ancor di più spinta, i mercati emergenti, come quello relativamente nuovo della green economy, potrebbero subire gli effetti nefasti una seria bolla speculativa, che ne rigonfierebbe i prezzi generando perdite per gli investitori (tra cui anche potenziali risparmiatori) aggravando ulteriormente la situazione delle famiglie italiane.
  • Democrazia: ....? Dopo il caso Napolitano, e i vari trattati sovranazionali che stuprano la costituzione nazionale, non riteniamo si possa ancora parlare di democrazia nei paesi dell’area euro, ricordando, infine, che, così come dice il prof. Alain Parguez sopracitato, l’euro altro non è che una moneta che serve ad instaurare un nuovo ordine totalitarista ed aristocratico in Europa.

 

 


 

La nostra risposta

 

Dovendo, quindi, rispondere al punto 1) tra quelli richiesti dalla committenza “Movimento 5 Stelle”, riteniamo che sia evidente e indiscutibile l’impercorribilità della strada che mantenga il nostro Paese all’interno della moneta unica europea (€).

 



 

[3] “la diminuzione di spesa pubblica comporta minor risparmio privato”, W. Mitchell, Teoria dei profitti di Kalecki.

Fonte: http://bilbo.economicoutlook.net/blog/?p=12003.

 

[5] OECD Economic Outlook, Volume 2012 Issue 2 - No. 92

 

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