RIFORMARE L'UNIONE EUROPEA? UNA MISSIONE IMPOSSIBILE

 

Non di rado si sentono i politici invocare “più Europa” o parlare di “Stati Uniti d’Europa”, e l'auspicio è spesso condiviso dagli italiani, convinti che il sistema dell’UE sia riformabile e che quanto sta accadendo a livello economico sia la conseguenza di una serie di non meglio precisati “errori” commessi in buona fede, come tali rimediabili.

Non è così: si tratta di un'illusione fra le più pericolose.

Riformare l’architettura dell’eurozona è un’operazione impossibile e, contrariamente a quanto molti osservatori economici suggeriscono, paradossalmente più ardua a livello politico.

Ogni riforma dell'Unione Europea in senso democratico andrebbe a colpire determinate posizioni di vantaggio ormai considerate acquisite, che producono specularmente danni ingenti a larghe fasce della popolazione europea. Infatti:

  • un ripristino della sovranità monetaria, anche a livello comunitario, comprimerebbe i profitti ricavati dai titoli di Stato (che verrebbero calmierati secondo esigenze pubbliche);
  • verrebbero a cadere i vincoli che l’influenza dei mercati dei capitali esercita sulla politica fiscale dell’Eurozona: tali vincoli sono all'origine di fenomeni come la precarizzazione del lavoro, l’assottigliamento del pubblico impiego e la svendita del patrimonio pubblico, tutti elementi da cui l'oligarchia finanziaria europea si ripromette lauti guadagni;
  • infine, le misure che sarebbero in grado di sanare gli squilibri commerciali e di competitività fra i Paesi del centro e della periferia, al momento non trovano consenso politico in Paesi che, come la Germania, hanno costruito la loro posizione dominante proprio grazie al surplus commerciale, ottenuto anche grazie alla presenza dell’unione monetaria.

Ecco dunque perché l’operazione di riforma risulta ardua: il tempo e le energie impiegate per riforme di tale portata, che sono contrarie agli interessi delle classi dirigenti comunitarie, fino ad ora consenzienti con questo vero e proprio economicidio (in maniera più o meno consapevole), giocherebbero a sfavore delle enormi masse di disoccupati e indigenti createsi con l’architettura tecnico-economica dell’Unione Monetaria Europea (EMU).

L’ipotesi di modifica o abolizione dei trattati, del Fiscal Compact [1] e del M.E.S. [2], ventilata da alcuni, appare frutto di una visione della realtà a tal punto ingenua ed utopistica che non mette neppure conto parlarne; ma, ed è questo il punto, noi non possiamo permetterci “ingenuità” di fronte ad un nemico tanto pericoloso.

Continuando a rimanere nell’euro e ad alimentare illusioni come quella della “riforma dei trattati”, l’Italia si consegna al default (prima) ed alla schiavitù del M.E.S. (subito dopo), negando il futuro ai giovani e una prospettiva di vita decorosa agli adulti, riducendo di fatto il nostro Paese ad una nazione del Terzo Mondo [3]. 

Della sordità e dell'ottusità delle istituzioni europee alle esigenze della gente comune è prova evidente il rifiuto aprioristico della proposta di Warren Mosler per la ricostruzione de L'Aquila (leggibile qui), proposta oltre tutto pienamente in linea con gli obiettivi della stessa UE e rispettosa dei vincoli imposti dal trattato di Maastricht in materia di deficit pubblico [4].

Riteniamo pertanto non solo insensato, ma anche colpevole, ogni tentativo di indulgere a prospettive di “riforma” di un organismo che fra i suoi obiettivi annovera proprio quello di distruggere la nostra economia: obiettivo che sta perseguendo da anni con successo grazie al fattivo contributo di una classe politica collusa e complice.

Anche le ipotesi di “uscita soft” o “uscita legale” (ai sensi dell’art. 50 del trattato di Lisbona) ci sembrano frutto di una visione della realtà distorta: come ripetiamo, noi non abbiamo il tempo di porre in opera il complesso e tortuoso iter che potrebbe, in teoria, condurci all’uscita dall’euro: faremmo default molto prima.

Per tutti questi motivi rinunciamo a proporre ipotesi di impossibile riforma dei trattati europei e passiamo a suggerire una “exit strategy” unilaterale, che passa necessariamente attraverso un atto d’imperio del governo.

 

"EXIT STRATEGY" UNILATERALE DALL'EURO

 

Uno dei maggiori problemi legati all’uscita dall’euro è l’inesistenza di un percorso giuridico da intraprendere per realizzarla: un elemento scientemente omesso dai padri della moneta unica al fine di impedire la rottura dell’unione monetaria, come chiaramente ammesso da Jacques Attali [5]. L’articolo 50 del Trattato di Lisbona sopra citato, infatti, consente l’uscita unilaterale dall’Unione Europea, ma non esiste alcun articolo che preveda l’uscita di uno Stato dall’euro. Pertanto il recesso dalla moneta unica deve necessariamente configurarsi come un atto unilaterale del Paese.

A maggior ragione, per i Paesi PIIGS è necessario delineare un’efficace “exit strategy” dalla moneta unica. È fondamentale, come si diceva sopra, che un’ipotesi di recesso dall’eurozona sia accuratamente pianificata in tutti i suoi punti, onde evitare esiti disordinati e disastrosi per la nostra economia già pesantemente indebolita.

Tale “exit strategy” prevede le seguenti tappe e criticità:

    il governo italiano, disattendendo il Trattato di Maastricht e tutte le altre norme collegate all’istituzione dell’euro, dovrebbe innanzitutto ridenominare la sua spesa e il suo gettito fiscale nell’unità di conto che definiremo “newlira”.

     Secondo molti commentatori, una simile eventualità decreterebbe al contempo un crollo dell’unione monetaria in toto, siglando la fine dell’euro. Le istituzioni centrali che governano la circolazione della valuta, in primis il Sistema Europeo delle Banche Centrali, sarebbero destinate allo scioglimento e gli istituti creditizi nazionali dei 17 Paesi membri tornerebbero ad utilizzare un’unità di conto propria. In tal caso, il problema principale che il nuovo governo dovrebbe fronteggiare sarebbe costituito dall’insieme dei contratti denominati in euro, che non essendo più legato ad istituzioni di governo subirebbe un crollo pesante del suo valore: come ad esempio rapporti debitori, prestiti e mutui bancari, titoli obbligazionari ed azionari. La strada più efficace potrebbe essere allora l’utilizzo della Lex Monetae, ovvero una ridenominazione statale dei contratti esistenti nella nuova unità di conto. La ridenominazione in newlire delle imposizioni fiscali innescherebbe naturalmente una domanda minima di moneta nazionale che il sistema bancario troverebbe comunque profittevole da soddisfare mediante prestiti.

     Nel caso in cui invece il recesso dell’Italia dall’Eurozona non comportasse la rottura dell’unione monetaria, che continuerebbe ad esistere e ad essere governata dalle sue istituzioni centrali, il nuovo governo dovrebbe affrontare una situazione diversa. In questo caso potrebbe essere più efficace la proposta avanzata da Warren Mosler, secondo la quale i contratti ed i depositi denominati in euro non dovrebbero essere convertiti forzosamente nella nuova valuta, ma si potrebbe lasciare ciò alla discrezionalità dei singoli.

     Un altro problema è legato alle potenziali fughe di capitali che potrebbero verificarsi in seguito all’uscita: anche in questo caso a determinare il fenomeno sarebbero i timori di unasvalutazione eccessiva della moneta, magari aggravata da una trasmissione di questi effetti alle dinamiche inflattive (ciò che viene comunemente definito pass through dalla letteratura economica). Una crescita dell’inflazione, erodendo il valore della moneta tesaurizzata ancor più velocemente rispetto al valore della moneta circolante, incentiverebbe i correntisti, i risparmiatori e gli investitori a preferire altre valute. Analisi empiriche mostrano come in realtà i Paesi europei siano molto meno soggetti all’insorgere di questo fenomeno - di cui invece soffrono, per varie ragioni, molti Paesi emergenti - e che in realtà per essi la determinante principale dell’inflazione di un dato periodo di tempo sia costituita dall’inflazione rilevata nel periodo precedente. Pertanto, l’idea comunemente suggerita dai media secondo cui una svalutazione di un’ipotetica moneta nazionale porterebbe ad un’automatica esplosione dell’inflazione appare improbabile.

 


 

[1] http://arjelle.altervista.org/Economiaascuola/mes/fiscalcompact_microsintesi.htm

 

 

[3] “Adottando l'Euro, l'Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera, con tutti i danni che ciò im plica” afferma Paul Krugman, Premio Nobel 2008 per l'Economia; ed è un’affermazione che condividiamo in pieno, dalla quale non ricaviamo certo l’impressione di dover proseguire su questa strada trovando tutti gli escamotage possibili per riuscirci.

 

[4] http://www.ilmessaggero.it/abruzzo/terremoto_bruxelles_aquila_ue/notizie/297042.shtml

Ingeborg Grassle, componente dell'ufficio di presidenza del gruppo Ppe, presidente dell'audizione, ha chiuso i lavori così: "La ricostruzione dell'Aquila è un compito nazionale dell'Italia. Non esiste un diritto alla ricostruzione a livello europeo. Il problema è grave ma lo dovete risolvere voi".

 

[5] http://tuttouno.blogspot.it/2012/03/attali-abbiamo-minuziosmente.html