Quadro riassuntivo.
Gli Italiani hanno una
concezione idealistica dell’Europa.
E’ legata al bisogno di immaginare qualcosa di alternativo alla pessima
politica italiana. Non conoscono la
realtà. Il contenuto dei Trattati, e le conseguenze delle scelte, non sono
mai stati illustrati dal sistema mediatico ufficiale. Di conseguenza li si
sente spesso invocare “più Europa” o
parlare di “Stati Uniti d’Europa”,
nella convinzione che il sistema dell’UE sia riformabile e che quanto sta
accadendo a livello economico sia la conseguenza di un’imponderabile serie di
“errori” commessi in buona fede, e come tali rimediabili.
Ovviamente s’illudono.
Per quanto si ritenga possibile e desiderabile
una Europa completamente diversa da quella disegnata nelle attuali Istituzioni
dell’Unione Europea, bisogna fare i conti con la realtà:
- dopo
aver convinto il Governo Italiano a chiedere la
riforma dall'eurozona, si dovrebbero convincere
anche e principalmente i cittadini ed i Governi
dei paesi partner: obiettivo che, oggi, appare
eccessivamente ambizioso. Esistono infatti
interessi costituiti molto forti al mantenimento
di una situazione che garantisce evidenti vantaggi
- in termini economici e di potere - sia al
sistema industriale della Germania e dei paesi core,
sia al sistema finanziario internazionale, che tramite
i meccanismi perversi delle regole dell'Unione sta
trovando un modo per obbligare i cittadini europei
a finanziare forzosamente le voragini aperte dalle
proprie follie speculative;
- abbiamo
a che fare con poteri molto forti, che hanno
operato efficacemente per condizionare l’opinione
pubblica nei Paesi del nord Europa, presso la
quale è ormai radicata la convinzione che
i problemi dell’economia nell’Unione derivano dagli
sprechi e dalla corruzione nei Paesi del sud. Ne
consegue che sia ritenuta cosa buona e giusta far
pagare a questi Paesi il costo del risanamento, percepito
come necessario, senza rendersi conto che i flussi
finanziari prelevati forzosamente con le manovre
pubbliche di aggiustamento non risanano i conti
pubblici ma - indebitamente - quelli privati;
- con
tutta la buona volontà del caso, le condizioni
necessarie alla sopravvivenza dell’Eurozona non
sono in nessun modo sostenibili per la Germania,
né economicamente né socialmente né
soprattutto elettoralmente;
- l’obiettivo
di riformare le attuali Istituzioni dell’Unione
Europea resta quindi talmente improbabile da rendere
assolutamente necessario prevedere il percorso
di uscita.
Prepararsi è
fondamentale, e bisogna farlo con grande
consapevolezza delle difficoltà e dei rischi, disegnandolo nelle sue linee
essenziali ed avendo ben chiaro in mente il seguente triplice obiettivo:
- raggiungere nella maniera più
rapida ed indolore possibile un nuovo diverso equilibrio interno;
- preservare se
possibile rapporti non conflittuali
con gli altri Paesi europei, con i quali il nostro sistema produttivo e
culturale ha scambi intensi ed essenziali;
- costruire o pianificare
comunque un livello sovranazionale (controllato democraticamente) in grado di
porre le Istituzioni a difesa degli interessi dei cittadini, contro lo
strapotere delle multinazionali. La dimensione statale è decisamente inadeguata
allo scopo.
Questo obiettivo è possibile ma non è facile;
neppure è scontato. Sottovalutare i
rischi è il modo migliore per far aumentarne la probabilità che il danno si
realizzi, mentre conoscerli bene aiuta a dominarli. La storia dei popoli
europei è lastricata di guerre, e le nostre generazioni sono fra le pochissime
fortunate che ancora non ne hanno vissuta una sulla propria pelle, il che porta
inevitabilmente a sottostimare se non ad ignorare la possibilità che la cosa si
ripeta (e per questo, di fatto, aumentandone la probabilità).
Dobbiamo essere molto consapevoli del fatto che
l’esito di un processo gestito male potrebbe essere esattamente questo. Per non
parlare del fatto che a qualcuno potrebbe fare comodo.
Chi propone di stracciare i trattati, inconsapevolmente sottostima il rischio. Ma
anche chi sogna di una magica notte in cui possa avvenire il changeover cogliendo di sorpresa i mercati ed i nemici del cambiamento,
probabilmente non si rende conto che i
mercati hanno antenne lunghe ed affinate. Non considera che le élite che si oppongono al cambiamento
sono decisamente più organizzate, preparate e determinate dei cittadini che
desiderano un mondo diverso.
IL PROCESSO DEVE
INVECE ESSERE INTESO E VISTO DA TUTTI COME SERIE DI PASSAGGI CONSEQUENZIALI
INEVITABILI. UNICA VIA DELLA RAGIONE. D’ALTRO CANTO, VISTA L’EMERGENZA, ANCHE
UMANITARIA, OCCORRE ESSERE PREPARATI A SCELTE DRASTICHE. NON INTENDIAMO
AVALLARE IN ITALIA UNA SITUAZIONE COME QUELLA CHE SI STA DRAMMATICAMENTE
VERIFICANDO IN GRECIA.
1) Uscire dall’euro
in modo legale e senza troppi danni
Per evitare il pericolo di conflitti, sono
necessari accorgimenti importanti:
- Seguire la via legale: esiste ed è percorribile.
- Rendere chiaro che
l’obiettivo non è il nazionalismo, ma una diversa Europa (quella descritta al punto I del documento);
facendo emergere in maniera inequivocabile che se ciò non si realizza è per
mancanza di volontà da parte di altri, non certo da parte nostra.
- Far capire che, a quel punto, l’uscita dall’UE (Europa dei mercanti di
denari) è l’unica strada percorribile anche per la costruzione di una Europa
dei cittadini.
- Gestire il processo salvaguardando sempre la corretta e completa informazione
verso tutti, spiegando bene le cause dei problemi, gli obiettivi da
raggiungere, i percorsi da seguire. Fare emergere con chiarezza chi vuole
davvero cambiare e chi no.
Partiamo dal presupposto che già ottenere il
consenso interno sulla comprensione del problema e sui cambiamenti da
realizzare sarà tutt’altro che facile. Ma facciamo
finta che ci siamo riusciti, e che il Governo Italiano si sia convinto ad
avanzare le proposte ragionevoli indispensabili a rendere l’Europa un luogo
desiderabile.
L’articolo 48 del
Trattato Consolidato sull’Unione Europea (Trattato di Lisbona) disciplina la
modifica dei trattati. La via più semplice
sarebbe infatti quella di pensare direttamente ad un nuovo Trattato, la cui disciplina superi la precedente,
esattamente come il Fiscal Compact ha superato (potenzialmente) i precedenti
accordi di Maastricht ed il patto di stabilità. Affermare che il cambiamento
non è tecnicamente possibile è affermare il falso. Di cambiamenti ce ne sono
stati eccome, purtroppo nella direzione
sbagliata. Non richiedono neppure l’unanimità: i recenti accordi, se ratificati
da un certo numero di stati aderenti, avranno valore fra tutti gli stati membri
dell’Unione.
Ad ogni modo, di fronte alla constatazione della
assai verosimile mancanza di volontà di nuovo accordo nel senso desiderato, non resterà che cambiare strada.
Soccorre allora l’articolo 50 del medesimo Trattato Consolidato sull’Unione
Europea, che disciplina l’uscita
unilaterale di uno Stato membro. Prevede un percorso non semplice, probabilmente ideato per rendere
estremamente sconveniente la prova. E’ infatti necessario, affinché i Trattati
in vigore cessino di produrre effetti fra le parti, che si raggiunga un accordo
sulla gestione dei rapporti che rimarrebbero senza disciplina giuridica. La
negoziazione dura per un massimo di due
anni, dopodiché i Trattati cessano comunque di produrre effetti giuridici.
La “notte” del changeover può nel peggiore dei casi
durare mesi: è bene prepararsi.
Questo ostacolo pone il problema di sopravvivere
in questo periodo che può essere lungo e complesso, durante il quale il nostro
potere negoziale è minato nelle radici dall’esposizione del nostro debito pubblico agli attacchi speculativi da
parte dei mercati finanziari. I mercati finanziari sono assolutamente in gradi
di ricattarci.
Poche coincidenze
potrebbero scatenare il putiferio:
un declassamento del rating, ormai prossimo allo stato di "investimento
spazzatura", che potrebbe obbligare una lunga serie di investitori
istituzionali a vendere i nostri titoli indipendentemente dal giudizio del
singolo investitore, ma solo per rispetto di obblighi statutari; una modifica nelle
regole contabili (come quella avvenuta nell'autunno del 2011) che obbliga le
istituzioni creditizie a considerare in maniera diversa i propri investimenti
di portafoglio; la decisione da parte della BCE di limitare la possibilità di
utilizzo dei TDS al di sotto di determinate caratteristiche nelle operazioni di
rifinanziamento nel sistema: sono tutte
situazioni non controllate da noi, che ci farebbero trovare da un momento
all'altro in crisi di liquidità.
Questo prosciugamento di liquidità può avvenire
in una qualunque delle tre aste che ogni mese vengono tenute per collocare i
titoli di Stato in scadenza. Una sola asta che non viene sottoscritta, sarebbe
più che sufficiente a scatenare reazioni a catena pericolosissime. Il “salvataggio” esterno diviene
inevitabile e prevede l’intervento della BCE, condizionato alla richiesta di
aiuti al MES ed al FMI, condizionati a loro volta dalla nostra accettazione
dello stato di schiavitù. I termini appariranno forse brutali, ma lo
sarebbero meno della realtà.
La circostanza che il processo non sarebbe
gestito da un Governo “amico”, rende quello scenario quasi inevitabile, se non
si pensa, prima, a qualche soluzione
alternativa.
Esistono due
possibilità per porsi nelle condizioni di poter affrontare il delicato processo
di uscita e di negoziazione da una posizione di maggiore forza e capacità di
tenuta.
1. La prima consiste nel predisporre, prima di iniziare il procedimento di richiesta
di modifica/annullamento dei trattati,
misure necessarie a ridurre al minimo il rischio di attacchi speculativi,
sterilizzando il potere di ricatto dei mercati. Quindi, precostituire
possibilità di assorbimento dei titoli che rischiano di non essere collocati, è
una condizione necessaria ad acquistare potere negoziale, senza il quale ogni
azione è precaria ed inefficace.
- La trasformazione della Cassa Depositi e Prestiti
in una banca a tutti gli effetti è una
soluzione altamente auspicabile in tal senso. Sarebbe allora in grado di
finanziarsi presso la Banca Centrale al tasso di riferimento e di acquistare
massicce quantità di titoli di Stato, al momento del bisogno. Ricordiamoci che
i TDS possono essere consegnati alla Banca Centrale in cambio di nuova
liquidità: le munizioni sarebbero quindi consistenti.
- Anche il MPS può essere ragionevolmente inserito in questo disegno, dando
almeno un senso ai miliardi pubblici spesi per colmare le voragini dei suoi
errori[1].
- Ancora. Va trasformato il regime giuridico dei titoli di Stato con
l’obiettivo di rendere di nuovo
conveniente per famiglie e aziende italiane impiegare la loro liquidità in
BOT, CCT, BTP, anche per evitare che tale liquidità finisca inconsapevolmente
ad alimentare bolle speculative sui mercati finanziari, tramite i prodotti per
l’investimento offerti dal sistema bancario e perfino postale. Le recenti modifiche, collegate alle
disposizioni introdotte con il trattato istitutivo del MES, vanno nella
direzione opposta: prevedono che i titoli di Stato di nuova emissione
possano essere “ristrutturati” nelle scadenze e negli importi con maggior
semplicità. La prospettiva ne scoraggia evidentemente il possesso. Quello che
non è scritto nei documenti del MES e neppure nelle nuove clausole dei TDS, è
che nel caso sventurato in cui si dovesse arrivare ad una ristrutturazione del
debito, le perdite che inevitabilmente si abbatterebbero nei conti del sistema
finanziario verrebbero coperte da prelievi
forzosi sulla ricchezza privata delle famiglie italiane (vedi Punto 1).
Ricchezza privata, è bene ricordare, che nonostante il declino iniziato dal 2007,
resta una fra le maggiori al mondo. Ricchezza che fa terribilmente gola al
sistema finanziario internazionale privato, che deve in qualche modo risolvere
il suo problema della non sostenibilità dei suoi debiti privati (altro che
debiti pubblici) e dei valori gonfiati degli asset su tutti i principali
mercati finanziari mondiali (vedi lo studio del Boston Consulting Group “Back
to Mesopotamia”[2]).
- La disciplina va invertita. Lo Stato deve rendere
esplicito che la tutela del risparmio delle famiglie (così come imposta dalla
Costituzione) è il principale motivo per cui è utile il sistema finanziario. Se, con lo scopo di preservare il sistema
finanziario, si dovesse rendere necessario distruggere il risparmio delle
famiglie, si avrebbe il tradimento della tutela costituzionale. Quindi, va disposto che in caso di ristrutturazione
del debito pubblico italiano, le famiglie italiane dovranno essere privilegiate
nel rimborso rispetto agli investitori istituzionali, specialmente se esteri.
Questi investitori, che oggi ipotizzano la ristrutturazione dei debiti pubblici
quale possibile via di soluzione ai loro problemi, debbono - invece - temere
l’ipotesi come distruttiva e contraria ai loro principali interessi economici.
- Si potrebbe arrivare ad
ipotizzare (ma solo in una fase transitoria e solo in casi realmente estremi di necessità, visto il pericolo
che correrebbero i nostri asset e le possibili reazioni dei mercati) che il Patrimonio Pubblico, anziché essere
svenduto ai privati (come il grande capitale privato internazionale desidera e
come l’Unione Europea richiede), debba
essere messo a garanzia del rimborso dei TDS italiani, solo se posseduti dal
sistema Italia. A chi obietta idealisticamente che il patrimonio pubblico
non si può ipotecare, rispondiamo realisticamente che le "policy"
della BCE, fedelmente interpretate da Monti prima e da Letta adesso, hanno come
obiettivo proprio la svendita del
patrimonio pubblico. Mille volte meglio tutelarlo, mettendolo a garanzia
degli investimenti finanziari del sistema Italia. Quello che avviene tramite
modifica della natura giuridica del debito, una volta che intervengono gli
aiuti della BCE del MES e del FMI, è esattamente il contrario: verranno
privilegiati gli investitori istituzionali esteri.
Vogliamo avallare questa scelta?
- Sempre con il fine di
rafforzare il potere negoziale del Paese, e dotare il tessuto sociale e
produttivo del paese di una diversa capacità di resistenza, è utile prevedere
da subito (prima dell’inizio dei negoziati) un intervento volto a dotare per legge i Comuni singoli o
associati del potere di utilizzare una “Moneta
Complementare” (La Moneta dei Cittadini), da affiancare all’Euro.
2.
La seconda possibilità è di natura giuridica. La Convenzione di Vienna disciplina nel diritto
internazionale i trattati multilaterali, quindi i Trattati dell’UE. L’articolo 60 della Convenzione di Vienna[3]
prevede che se uno degli Stati membri ha violato accordi sostanziali, le altre
parti o anche una sola di esse che ne abbia subito in conseguenza gravi
pregiudizi, possano ritenersi non obbligate dalle disposizioni del trattato.
E’ facilmente dimostrabile la circostanza che la Germania, e non solo essa, abbia
sostanzialmente e ripetutamente violato l’obbligo di coordinare le sue
politiche economiche con gli altri Stati membri dell’Unione; come è facilmente
dimostrabile il grave pregiudizio che gli altri hanno subito da tale
violazione. Questo obbligo di coordinamento rappresenta sicuramente una parte
sostanziale del Trattato, anche se poco discusso e pubblicizzato. Questo vuol
dire che, nel momento in cui ci si siede al tavolo negoziale, sarebbe possibile
appellarsi alla Convenzione di Vienna e dichiarare decaduti gli accordi di
Maastricht e Lisbona e, a cascata, Fiscal Compact, MES, Velsen.
Questa azione consente
di recuperare la sovranità monetaria,
necessaria ad affrontare con armi ben più potenti gli attacchi speculativi.
In tal senso, è estremamente utile, dettagliato e
documentato, un documento pubblicato sul blog di Luciano Barra Caracciolo[4], che
riepiloga in maniera chiara ed evidente i comportamenti della Germania in
sostanziale e grave violazione dello spirito e la lettera degli accordi
fondamentali che impongono la collaborazione ed il coordinamento nella
determinazione delle politiche economiche, sociali e del lavoro.
Altrettanto utile sarà condividere l’azione con i
Paesi dell’Europa del sud che hanno ricevuto gravi pregiudizi da tali
violazioni. Non siamo soli nei bisogni e negli intenti.
E’ anzi estremamente
opportuno che il Movimento 5 Stelle si faccia promotore di una campagna di
informazione sistematica su quanto è avvenuto e sta ancora avvenendo in Grecia
e negli altri paesi Piigs, per evidenziare con forza che le azioni correttive
imposte dall’Unione hanno provocato l’aumento drammatico dell’indebitamento
pubblico, e non già il suo risanamento.
Affiancare le informazioni tecniche ed economiche con quelle relative
all’impatto violento, vigliacco e inaccettabile che le manovre di “aggiustamento”
producono sulla popolazione è di grande forza emotiva. La solidarietà con le popolazioni - che tristemente manca, ma solo
per mancanza di informazione - può e deve essere stimolo ad una diversa
comprensione dei reali significati delle “manovre” di salvataggio. Deve servire a smascherare il tentativo
evidente di scaricare sulle popolazioni dei Paesi più ingenui i problemi del
sistema finanziario privato ed internazionale, anche tenendo presente che la fragilità
del nostro Paese dal punto di vista politico, accompagnata all’enorme ricchezza
privata delle famiglie italiane, fanno dell’Italia un target privilegiato di
tali mire.
2) Ipotesi di “exit
strategy” unilaterale dall’euro
Pur con tutti gli sforzi umanamente possibili,
tuttavia, potrebbe risultare impossibile mantenersi nel solco della piena
legalità, data l’inesistenza di un
percorso giuridico da intraprendere per realizzarla (un elemento scientemente
omesso dai padri della moneta unica al fine di impedire la rottura
dell’unione monetaria, come chiaramente ammesso da Jacques Attali[5]):
non esiste infatti alcun articolo del trattato di Lisbona che preveda l’uscita
di uno Stato dall’euro senza uscire
contemporaneamente dall’UE.
Pertanto, qualora tutti gli sforzi posti in
essere dall’Italia per uscire legalmente dall’Unione Europea dovessero
rivelarsi vani, il recesso dalla moneta unica deve necessariamente configurarsi
come un atto unilaterale del Paese, che resti per quanto possibile nel solco di
rispetto reciproco e legalità. Scegliere se farlo o meno è questione di
volontà politica, e molti commentatori la ritengono la soluzione migliore.
Occorrerà valutare i costi economici del percorso legale, che ha il chiaro
svantaggio di esporci più a lungo al fuoco incrociato dei mercati, in condizione
di grave incertezza.
Tale ipotesi, evidentemente densa di criticità, è
stata da noi analizzata in questo
documento.
3) L’ipotesi del referendum sull’euro
Volutamente abbiamo lasciato per ultima quella
che, secondo logica, avrebbe dovuto essere la prima ipotesi, dal momento che è
l’unica proposta avanzata dal M5S nella persona dello stesso Beppe Grillo: il referendum sull’euro. I motivi per
cui l’abbiamo finora ignorata sono presto detti: si tratta di un’ipotesi non solo irrealizzabile, ma
anche oltremodo pericolosa.
Paolo Becchi[6] aveva spiegato chiaramente lo stato della
questione già nel novembre del 2012: “Cominciamo con il chiarire una cosa: dall’Euro l’Italia non potrebbe certo
uscire tramite un referendum abrogativo. Non soltanto, infatti, l’art. 75 della Costituzione vieta
esplicitamente che possa svolgersi un simile referendum sulle leggi di
autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali ma, secondo una
consolidata interpretazione della Consulta, non sarebbe mai possibile interferire, attraverso referendum, con
l’ambito di applicazione delle norme comunitarie e con gli obblighi assunti
dall’Italia nei confronti dell’Unione Europea. Si dirà: Grillo ha proposto
un referendum “propositivo”, non abrogativo. Nel nostro ordinamento, però, non è possibile proporre lo svolgimento di
referendum consultivi, al di là delle espresse previsioni della
costituzione (articolo 132, ai sensi del quale tali consultazioni riguardano
unicamente modifiche ai territori delle Regioni).”
E tuttavia, come fa notare lo stesso Becchi, la
proposta di Grillo sembra richiamare espressamente un precedente, ossia
“quanto avvenne nel 1989, quando,
con legge costituzionale (3 aprile 1989, n. 2), fu indetto un “referendum di
indirizzo” (ossia consultivo) sul conferimento di un mandato al Parlamento
Europeo per redigere un progetto di Costituzione europea. Fu necessaria,
allora, una legge di iniziativa popolare promossa dal Movimento federalista europeo
– successivamente sostituita dalla proposta di legge costituzionale presentata
dal Partito Comunista – la cui approvazione richiese la doppia lettura in
entrambi i rami del Parlamento, secondo l’iter necessario per le leggi
costituzionali. La Costituzione non
prevede, nella sua lettera, un’ipotesi simile, ma nell’89 i partiti furono
concordi nell’approvare questo strumento atipico (il “referendum di indirizzo”)
mediante una legge costituzionale ad
hoc, formalmente “in deroga” o “rottura” di quanto previsto dall’art. 75
della Costituzione, per legittimare con il ricorso al voto popolare
l’accelerazione del processo di integrazione europea. Ma, limitandosi
semplicemente all’indizione di quella singola consultazione, la legge costituzionale non ha introdotto
nel nostro ordinamento il referendum di indirizzo, il quale è per così
dire, una volta svoltesi le operazioni di voto, uscito dallo scenario
costituzionale, facendo così svanire la temporanea “rottura della
Costituzione”. Grillo, però, non può non sapere che questa ipotesi non si
ripeterà, salvo una vittoria che, al momento, sembra andare al di là di ogni
realistica previsione e che porti il Movimento 5 Stelle a diventare, da solo,
partito di maggioranza assoluta in Parlamento.”
Poiché, come ben sappiamo, le previsioni del
prof. Becchi si sono purtroppo avverate, il M5S non ha i numeri per far
approvare una legge costituzionale che permetta di istituire un referendum di
questo genere sull’Euro. Oltre tutto, tale
referendum sarebbe – come scrive lo stesso Grillo – puramente consultivo,
privo di effetti vincolanti, cioè sostanzialmente inutile.
A nostro parere, tuttavia, il problema principale
non è nemmeno quello della natura velleitaria dell’iniziativa, bensì quello della sua assoluta NON
AUSPICABILITA'.
In effetti, annunciare pubblicamente ai mercati,
alle banche e alla grande speculazione la nostra intenzione di uscire dalla
moneta unica porterebbe, in assenza di difese adeguate e limitazioni alla
circolazione dei capitali, a gravi problemi di fuga dei residui capitali e
vendite massicce di titoli di Stato italiani prezzati in euro (per tema della
loro svalutazione, che viene data dal 20%
al 30%), con conseguenze potenzialmente pericolosissime per la nostra
economia. Ne sono convinti tutti i più insigni commentatori, che infatti
raccomandano segretezza assoluta e
uscita a borse chiuse e per apposito decreto governativo.
Citiamo l’esempio di Roger Bootle, vincitore del “Wolfson
Economics Prize”[7],
concorso indetto fra 425 economisti per la miglior strategia d’uscita
dall’Eurozona, con il suo paper “Leaving the euro: A practical guide”[8]:
- “The early stages of planning for a euro exit should be conducted in
secret, although it will be difficult to maintain the secrecy for long.
- Capital controls and
similar measures will need to be implemented fairly early in the preparation
stage in order to limit the disruption
likely to be caused by the disclosure of the exit plans.
- Once such measures are in
place, exit plans should be implemented
swiftly.”[9]
Preparativi SEGRETI,
pericolo di fuga informativa ALTO e DISTRUTTIVO, uscita VELOCE. Lo stesso Bootle comunque
consiglia, come il nostro gruppo, di eseguire la manovra in collaborazione se
possibile con gli altri governi europei, per mantenere rapporti amichevoli.
C’è poi un grave problema di disinformazione della cittadinanza sull’argomento. Infatti un popolo come quello italiano,
sottoposto dai primi anni ‘70 ad un condizionamento mediatico che lo obbliga ad
ascoltare sempre e solo la stessa campana (oppure a distrarsi con i casi
giudiziari di Berlusconi, in modo da lasciar agire indisturbati i veri registi
della cosiddetta “crisi” europea), non
dispone neppure delle informazioni minime per poter comprendere che cos'è
l'euro e quali sono i suoi effetti sull'economia reale. Anzi, esso subisce
quotidianamente il terrorismo dei giornalisti a proposito degli effetti
devastanti di un’uscita dalla moneta unica e viene sistematicamente convertito,
soprattutto dai politici della cosiddetta “sinistra” e dai media da essi
controllati, a quella che Alberto Bagnai[10] definisce "la mistica del 'ce lo chiede
l'Europa'": una nuova religione che, come tutte le religioni, si
esercita in paralogismi che appaiano persuasivi per la ragione, ma che sono in
realtà totalmente destituiti di fondamento razionale. Come osserva il prof.
Bagnai, la macchina infernale del condizionamento mediatico sta precludendo
"la riflessione sugli scopi stessi dell'organizzazione politica umana, sul
ruolo delle Costituzioni, sul senso dell'economia sovrastata ormai dalla
finanza." [11]
Come si può dunque
immaginare che una massa eterodiretta e disinformata, e che oltretutto si
ritiene mediamente colpevole della crisi corrente dopo il reiterato
bombardamento mediatico su corruzione, evasione fiscale e malcostume diffuso,
possa deliberare in modo assennato su una materia così complessa, che implica
fra l'altro conoscenze economiche di livello medio-alto?
Come si può anche solo ipotizzare di consegnare
una decisione di tale importanza per la vita di tutti a chi, seppur non per colpa
sua, "non sa"?
Per tutte queste ragioni riteniamo che chiedere un referendum sull'euro sia un atto pericoloso
oltre che inutile, per quanto meritevole in linea di principio. Atto dal quale
prendiamo risolutamente le distanze.
[1] Non illudiamoci: i soldi
per salvare il sistema bancario privato li tireranno fuori dalle nostre tasche,
in un modo o nell'altro. Tanto vale pretendere, almeno, che in cambio di quei
soldi lo Stato ne acquisisca il controllo.
[9] “Le prime fasi di
pianificazione per una uscita dall’euro dovrebbero essere condotte in segreto,
anche se sarà difficile mantenere il segreto a lungo. I controlli sui capitali
e misure analoghe dovranno essere attuati abbastanza presto nella fase di
preparazione, al fine di limitare i disagi che potrebbero essere causati dalla
divulgazione dei piani di uscita. Una volta che tali misure sono in atto, i
piani di uscita dovrebbero essere attuati rapidamente."
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