"EXIT STRATEGY" DALL'EURO

 

 

Quadro riassuntivo.

 

Gli Italiani hanno una concezione idealistica dell’Europa. E’ legata al bisogno di immaginare qualcosa di alternativo alla pessima politica italiana. Non conoscono la realtà. Il contenuto dei Trattati, e le conseguenze delle scelte, non sono mai stati illustrati dal sistema mediatico ufficiale. Di conseguenza li si sente spesso invocare “più Europa” o parlare di “Stati Uniti d’Europa”, nella convinzione che il sistema dell’UE sia riformabile e che quanto sta accadendo a livello economico sia la conseguenza di un’imponderabile serie di “errori” commessi in buona fede, e come tali rimediabili.

Ovviamente s’illudono.

Per quanto si ritenga possibile e desiderabile una Europa completamente diversa da quella disegnata nelle attuali Istituzioni dell’Unione Europea, bisogna fare i conti con la realtà:

  • dopo aver convinto il Governo Italiano a chiedere la riforma dall'eurozona, si dovrebbero convincere anche e  principalmente i cittadini ed i Governi dei paesi partner: obiettivo che, oggi, appare eccessivamente ambizioso. Esistono  infatti interessi costituiti molto forti al mantenimento di una situazione che garantisce evidenti vantaggi - in termini economici e di  potere - sia al sistema industriale della Germania e dei paesi core, sia al sistema finanziario internazionale, che tramite i meccanismi perversi delle regole dell'Unione sta trovando un modo per obbligare i cittadini europei a finanziare forzosamente le voragini aperte dalle proprie follie speculative;
  • abbiamo a che fare con poteri molto forti, che hanno operato efficacemente per condizionare l’opinione pubblica nei Paesi del nord Europa, presso la quale è ormai radicata la convinzione che i problemi dell’economia nell’Unione derivano dagli sprechi e dalla corruzione nei Paesi del sud. Ne consegue che sia ritenuta cosa buona e giusta far pagare a questi Paesi il costo del risanamento, percepito come necessario, senza rendersi conto che i flussi finanziari prelevati forzosamente con le manovre pubbliche di aggiustamento non risanano i conti pubblici ma - indebitamente - quelli privati;
  • con tutta la buona volontà del caso, le condizioni necessarie alla sopravvivenza dell’Eurozona non sono in nessun modo sostenibili per la Germania, né economicamente né socialmente né soprattutto elettoralmente;
  • l’obiettivo di riformare le attuali Istituzioni dell’Unione Europea resta quindi talmente improbabile da rendere assolutamente necessario prevedere il percorso di uscita.

 

Prepararsi è fondamentale, e bisogna farlo con grande consapevolezza delle difficoltà e dei rischi, disegnandolo nelle sue linee essenziali ed avendo ben chiaro in mente il seguente triplice obiettivo:

  • raggiungere nella maniera più rapida ed indolore possibile un nuovo diverso equilibrio interno;
  • preservare se possibile rapporti non conflittuali con gli altri Paesi europei, con i quali il nostro sistema produttivo e culturale ha scambi intensi ed essenziali;
  • costruire o pianificare comunque un livello sovranazionale (controllato democraticamente) in grado di porre le Istituzioni a difesa degli interessi dei cittadini, contro lo strapotere delle multinazionali. La dimensione statale è decisamente inadeguata allo scopo.

 

Questo obiettivo è possibile ma non è facile; neppure è scontato. Sottovalutare i rischi è il modo migliore per far aumentarne la probabilità che il danno si realizzi, mentre conoscerli bene aiuta a dominarli. La storia dei popoli europei è lastricata di guerre, e le nostre generazioni sono fra le pochissime fortunate che ancora non ne hanno vissuta una sulla propria pelle, il che porta inevitabilmente a sottostimare se non ad ignorare la possibilità che la cosa si ripeta (e per questo, di fatto, aumentandone la probabilità).

Dobbiamo essere molto consapevoli del fatto che l’esito di un processo gestito male potrebbe essere esattamente questo. Per non parlare del fatto che a qualcuno potrebbe fare comodo.

Chi propone di stracciare i trattati, inconsapevolmente sottostima il rischio. Ma anche chi sogna di una magica notte in cui possa avvenire il changeover cogliendo di sorpresa i mercati ed i nemici del cambiamento, probabilmente non si rende conto che i mercati hanno antenne lunghe ed affinate. Non considera che le élite che si oppongono al cambiamento sono decisamente più organizzate, preparate e determinate dei cittadini che desiderano un mondo diverso.

IL PROCESSO DEVE INVECE ESSERE INTESO E VISTO DA TUTTI COME SERIE DI PASSAGGI CONSEQUENZIALI INEVITABILI. UNICA VIA DELLA RAGIONE. D’ALTRO CANTO, VISTA L’EMERGENZA, ANCHE UMANITARIA, OCCORRE ESSERE PREPARATI A SCELTE DRASTICHE. NON INTENDIAMO AVALLARE IN ITALIA UNA SITUAZIONE COME QUELLA CHE SI STA DRAMMATICAMENTE VERIFICANDO IN GRECIA.

 

 

1) Uscire dall’euro in modo legale e senza troppi danni

Per evitare il pericolo di conflitti, sono necessari accorgimenti importanti:

 

  1. Seguire la via legale: esiste ed è percorribile.
  2. Rendere chiaro che l’obiettivo non è il nazionalismo, ma una diversa Europa (quella descritta al punto I del documento); facendo emergere in maniera inequivocabile che se ciò non si realizza è per mancanza di volontà da parte di altri, non certo da parte nostra.
  3. Far capire che, a quel punto, l’uscita dall’UE (Europa dei mercanti di denari) è l’unica strada percorribile anche per la costruzione di una Europa dei cittadini.
  4. Gestire il processo salvaguardando sempre la corretta e completa informazione verso tutti, spiegando bene le cause dei problemi, gli obiettivi da raggiungere, i percorsi da seguire. Fare emergere con chiarezza chi vuole davvero cambiare e chi no.

 

Partiamo dal presupposto che già ottenere il consenso interno sulla comprensione del problema e sui cambiamenti da realizzare sarà tutt’altro che facile. Ma facciamo finta che ci siamo riusciti, e che il Governo Italiano si sia convinto ad avanzare le proposte ragionevoli indispensabili a rendere l’Europa un luogo desiderabile.

L’articolo 48 del Trattato Consolidato sull’Unione Europea (Trattato di Lisbona) disciplina la modifica dei trattati. La via più semplice sarebbe infatti quella di pensare direttamente ad un nuovo Trattato, la cui disciplina superi la precedente, esattamente come il Fiscal Compact ha superato (potenzialmente) i precedenti accordi di Maastricht ed il patto di stabilità. Affermare che il cambiamento non è tecnicamente possibile è affermare il falso. Di cambiamenti ce ne sono stati eccome,  purtroppo nella direzione sbagliata. Non richiedono neppure l’unanimità: i recenti accordi, se ratificati da un certo numero di stati aderenti, avranno valore fra tutti gli stati membri dell’Unione.

Ad ogni modo, di fronte alla constatazione della assai verosimile mancanza di volontà di nuovo accordo nel senso desiderato, non resterà che cambiare strada.

Soccorre allora l’articolo 50 del medesimo Trattato Consolidato sull’Unione Europea, che disciplina l’uscita unilaterale di uno Stato membro. Prevede un percorso non semplice, probabilmente ideato per rendere estremamente sconveniente la prova. E’ infatti necessario, affinché i Trattati in vigore cessino di produrre effetti fra le parti, che si raggiunga un accordo sulla gestione dei rapporti che rimarrebbero senza disciplina giuridica. La negoziazione dura per un massimo di due anni, dopodiché i Trattati cessano comunque di produrre effetti giuridici.

La “notte” del changeover può nel peggiore dei casi durare mesi: è bene prepararsi.

Questo ostacolo pone il problema di sopravvivere in questo periodo che può essere lungo e complesso, durante il quale il nostro potere negoziale è minato nelle radici dall’esposizione del nostro debito pubblico agli attacchi speculativi da parte dei mercati finanziari. I mercati finanziari sono assolutamente in gradi di ricattarci.

Poche coincidenze potrebbero scatenare il putiferio: un declassamento del rating, ormai prossimo allo stato di "investimento spazzatura", che potrebbe obbligare una lunga serie di investitori istituzionali a vendere i nostri titoli indipendentemente dal giudizio del singolo investitore, ma solo per rispetto di obblighi statutari; una modifica nelle regole contabili (come quella avvenuta nell'autunno del 2011) che obbliga le istituzioni creditizie a considerare in maniera diversa i propri investimenti di portafoglio; la decisione da parte della BCE di limitare la possibilità di utilizzo dei TDS al di sotto di determinate caratteristiche nelle operazioni di rifinanziamento nel sistema: sono tutte situazioni non controllate da noi, che ci farebbero trovare da un momento all'altro in crisi di liquidità.

Questo prosciugamento di liquidità può avvenire in una qualunque delle tre aste che ogni mese vengono tenute per collocare i titoli di Stato in scadenza. Una sola asta che non viene sottoscritta, sarebbe più che sufficiente a scatenare reazioni a catena pericolosissime. Il “salvataggio” esterno diviene inevitabile e prevede l’intervento della BCE, condizionato alla richiesta di aiuti al MES ed al FMI, condizionati a loro volta dalla nostra accettazione dello stato di schiavitù. I termini appariranno forse brutali, ma lo sarebbero meno della realtà.

La circostanza che il processo non sarebbe gestito da un Governo “amico”, rende quello scenario quasi inevitabile, se non si pensa, prima, a qualche soluzione alternativa.

Esistono due possibilità per porsi nelle condizioni di poter affrontare il delicato processo di uscita e di negoziazione da una posizione di maggiore forza e capacità di tenuta.

 

1. La prima consiste nel predisporre, prima di iniziare il procedimento di richiesta di modifica/annullamento dei trattati, misure necessarie a ridurre al minimo il rischio di attacchi speculativi, sterilizzando il potere di ricatto dei mercati. Quindi, precostituire possibilità di assorbimento dei titoli che rischiano di non essere collocati, è una condizione necessaria ad acquistare potere negoziale, senza il quale ogni azione è precaria ed inefficace.

  • La trasformazione della Cassa Depositi e Prestiti in una banca a tutti gli effetti è una soluzione altamente auspicabile in tal senso. Sarebbe allora in grado di finanziarsi presso la Banca Centrale al tasso di riferimento e di acquistare massicce quantità di titoli di Stato, al momento del bisogno. Ricordiamoci che i TDS possono essere consegnati alla Banca Centrale in cambio di nuova liquidità: le munizioni sarebbero quindi consistenti.
  • Anche il MPS può essere ragionevolmente inserito in questo disegno, dando almeno un senso ai miliardi pubblici spesi per colmare le voragini dei suoi errori[1].
  • Ancora. Va trasformato il regime giuridico dei titoli di Stato con l’obiettivo di rendere di nuovo conveniente per famiglie e aziende italiane impiegare la loro liquidità in BOT, CCT, BTP, anche per evitare che tale liquidità finisca inconsapevolmente ad alimentare bolle speculative sui mercati finanziari, tramite i prodotti per l’investimento offerti dal sistema bancario e perfino postale. Le recenti modifiche, collegate alle disposizioni introdotte con il trattato istitutivo del MES, vanno nella direzione opposta: prevedono che i titoli di Stato di nuova emissione possano essere “ristrutturati” nelle scadenze e negli importi con maggior semplicità. La prospettiva ne scoraggia evidentemente il possesso. Quello che non è scritto nei documenti del MES e neppure nelle nuove clausole dei TDS, è che nel caso sventurato in cui si dovesse arrivare ad una ristrutturazione del debito, le perdite che inevitabilmente si abbatterebbero nei conti del sistema finanziario verrebbero coperte da prelievi forzosi sulla ricchezza privata delle famiglie italiane (vedi Punto 1). Ricchezza privata, è bene ricordare, che nonostante il declino iniziato dal 2007, resta una fra le maggiori al mondo. Ricchezza che fa terribilmente gola al sistema finanziario internazionale privato, che deve in qualche modo risolvere il suo problema della non sostenibilità dei suoi debiti privati (altro che debiti pubblici) e dei valori gonfiati degli asset su tutti i principali mercati finanziari mondiali (vedi lo studio del Boston Consulting Group “Back to Mesopotamia”[2]).
  • La disciplina va invertita. Lo Stato deve rendere esplicito che la tutela del risparmio delle famiglie (così come imposta dalla Costituzione) è il principale motivo per cui è utile il sistema finanziario. Se, con lo scopo di preservare il sistema finanziario, si dovesse rendere necessario distruggere il risparmio delle famiglie, si avrebbe il tradimento della tutela costituzionale. Quindi, va disposto che in caso di ristrutturazione del debito pubblico italiano, le famiglie italiane dovranno essere privilegiate nel rimborso rispetto agli investitori istituzionali, specialmente se esteri. Questi investitori, che oggi ipotizzano la ristrutturazione dei debiti pubblici quale possibile via di soluzione ai loro problemi, debbono - invece - temere l’ipotesi come distruttiva e contraria ai loro principali interessi economici.
  • Si potrebbe arrivare ad ipotizzare (ma solo in una fase transitoria e solo in casi realmente estremi di necessità, visto il pericolo che correrebbero i nostri asset e le possibili reazioni dei mercati) che il Patrimonio Pubblico, anziché essere svenduto ai privati (come il grande capitale privato internazionale desidera e come l’Unione Europea richiede), debba essere messo a garanzia del rimborso dei TDS italiani, solo se posseduti dal sistema Italia. A chi obietta idealisticamente che il patrimonio pubblico non si può ipotecare, rispondiamo realisticamente che le "policy" della BCE, fedelmente interpretate da Monti prima e da Letta adesso, hanno come obiettivo proprio la svendita del patrimonio pubblico. Mille volte meglio tutelarlo, mettendolo a garanzia degli investimenti finanziari del sistema Italia. Quello che avviene tramite modifica della natura giuridica del debito, una volta che intervengono gli aiuti della BCE del MES e del FMI, è esattamente il contrario: verranno privilegiati gli investitori istituzionali esteri. Vogliamo avallare questa scelta?
  • Sempre con il fine di rafforzare il potere negoziale del Paese, e dotare il tessuto sociale e produttivo del paese di una diversa capacità di resistenza, è utile prevedere da subito (prima dell’inizio dei negoziati) un intervento volto a  dotare per legge i Comuni singoli o associati del potere di utilizzare una “Moneta Complementare” (La Moneta dei Cittadini), da affiancare all’Euro.

 

2.   La seconda possibilità è di natura giuridica. La Convenzione di Vienna disciplina nel diritto internazionale i trattati multilaterali, quindi i Trattati dell’UE. L’articolo 60 della Convenzione di Vienna[3] prevede che se uno degli Stati membri ha violato accordi sostanziali, le altre parti o anche una sola di esse che ne abbia subito in conseguenza gravi pregiudizi, possano ritenersi non obbligate dalle disposizioni del trattato.

E’ facilmente dimostrabile la circostanza che la Germania, e non solo essa, abbia sostanzialmente e ripetutamente violato l’obbligo di coordinare le sue politiche economiche con gli altri Stati membri dell’Unione; come è facilmente dimostrabile il grave pregiudizio che gli altri hanno subito da tale violazione. Questo obbligo di coordinamento rappresenta sicuramente una parte sostanziale del Trattato, anche se poco discusso e pubblicizzato. Questo vuol dire che, nel momento in cui ci si siede al tavolo negoziale, sarebbe possibile appellarsi alla Convenzione di Vienna e dichiarare decaduti gli accordi di Maastricht e Lisbona e, a cascata, Fiscal Compact, MES, Velsen.

Questa azione consente di recuperare la sovranità monetaria, necessaria ad affrontare con armi ben più potenti gli attacchi speculativi.

In tal senso, è estremamente utile, dettagliato e documentato, un documento pubblicato sul blog di Luciano Barra Caracciolo[4], che riepiloga in maniera chiara ed evidente i comportamenti della Germania in sostanziale e grave violazione dello spirito e la lettera degli accordi fondamentali che impongono la collaborazione ed il coordinamento nella determinazione delle politiche economiche, sociali e del lavoro.

Altrettanto utile sarà condividere l’azione con i Paesi dell’Europa del sud che hanno ricevuto gravi pregiudizi da tali violazioni. Non siamo soli nei bisogni e negli intenti.

E’ anzi estremamente opportuno che il Movimento 5 Stelle si faccia promotore di una campagna di informazione sistematica su quanto è avvenuto e sta ancora avvenendo in Grecia e negli altri paesi Piigs, per evidenziare con forza che le azioni correttive imposte dall’Unione hanno provocato l’aumento drammatico dell’indebitamento pubblico, e non già il suo risanamento. Affiancare le informazioni tecniche ed economiche con quelle relative all’impatto violento, vigliacco e inaccettabile che le manovre di “aggiustamento” producono sulla popolazione è di grande forza emotiva. La solidarietà con le popolazioni - che tristemente manca, ma solo per mancanza di informazione - può e deve essere stimolo ad una diversa comprensione dei reali significati delle “manovre” di salvataggio.  Deve servire a smascherare il tentativo evidente di scaricare sulle popolazioni dei Paesi più ingenui i problemi del sistema finanziario privato ed internazionale, anche tenendo presente che la fragilità del nostro Paese dal punto di vista politico, accompagnata all’enorme ricchezza privata delle famiglie italiane, fanno dell’Italia un target privilegiato di tali mire.

 

 

2) Ipotesi di “exit strategy” unilaterale dall’euro

Pur con tutti gli sforzi umanamente possibili, tuttavia, potrebbe risultare impossibile mantenersi nel solco della piena legalità, data l’inesistenza di un percorso giuridico da intraprendere per realizzarla (un elemento scientemente omesso dai padri della moneta unica al fine di impedire la rottura dell’unione monetaria, come chiaramente ammesso da Jacques Attali[5]): non esiste infatti alcun articolo del trattato di Lisbona che preveda l’uscita di uno Stato dall’euro senza uscire contemporaneamente dall’UE.

Pertanto, qualora tutti gli sforzi posti in essere dall’Italia per uscire legalmente dall’Unione Europea dovessero rivelarsi vani, il recesso dalla moneta unica deve necessariamente configurarsi come un atto unilaterale del Paese, che resti per quanto possibile nel solco di rispetto reciproco e legalità. Scegliere se farlo o meno è questione di volontà politica, e molti commentatori la ritengono la soluzione migliore. Occorrerà valutare i costi economici del percorso legale, che ha il chiaro svantaggio di esporci più a lungo al fuoco incrociato dei mercati, in condizione di grave incertezza.

Tale ipotesi, evidentemente densa di criticità, è stata da noi analizzata in questo documento.

 

 

3)  L’ipotesi del referendum sull’euro

Volutamente abbiamo lasciato per ultima quella che, secondo logica, avrebbe dovuto essere la prima ipotesi, dal momento che è l’unica proposta avanzata dal M5S nella persona dello stesso Beppe Grillo: il referendum sull’euro. I motivi per cui l’abbiamo finora ignorata sono presto detti: si tratta di un’ipotesi non solo irrealizzabile, ma anche oltremodo pericolosa.

Paolo Becchi[6] aveva spiegato chiaramente lo stato della questione già nel novembre del 2012: “Cominciamo con il chiarire una cosa: dall’Euro l’Italia non potrebbe certo uscire tramite un referendum abrogativo. Non soltanto, infatti, l’art. 75 della Costituzione vieta esplicitamente che possa svolgersi un simile referendum sulle leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali ma, secondo una consolidata interpretazione della Consulta, non sarebbe mai possibile interferire, attraverso referendum, con l’ambito di applicazione delle norme comunitarie e con gli obblighi assunti dall’Italia nei confronti dell’Unione Europea. Si dirà: Grillo ha proposto un referendum “propositivo”, non abrogativo. Nel nostro ordinamento, però, non è possibile proporre lo svolgimento di referendum consultivi, al di là delle espresse previsioni della costituzione (articolo 132, ai sensi del quale tali consultazioni riguardano unicamente modifiche ai territori delle Regioni).”

E tuttavia, come fa notare lo stesso Becchi, la proposta di Grillo sembra richiamare espressamente  un precedente, ossia “quanto avvenne nel 1989, quando, con legge costituzionale (3 aprile 1989, n. 2), fu indetto un “referendum di indirizzo” (ossia consultivo) sul conferimento di un mandato al Parlamento Europeo per redigere un progetto di Costituzione europea. Fu necessaria, allora, una legge di iniziativa popolare promossa dal Movimento federalista europeo – successivamente sostituita dalla proposta di legge costituzionale presentata dal Partito Comunista – la cui approvazione richiese la doppia lettura in entrambi i rami del Parlamento, secondo l’iter necessario per le leggi costituzionali. La Costituzione non prevede, nella sua lettera, un’ipotesi simile, ma nell’89 i partiti furono concordi nell’approvare questo strumento atipico (il “referendum di indirizzo”) mediante una legge costituzionale ad hoc, formalmente “in deroga” o “rottura” di quanto previsto dall’art. 75 della Costituzione, per legittimare con il ricorso al voto popolare l’accelerazione del processo di integrazione europea. Ma, limitandosi semplicemente all’indizione di quella singola consultazione, la legge costituzionale non ha introdotto nel nostro ordinamento il referendum di indirizzo, il quale è per così dire, una volta svoltesi le operazioni di voto, uscito dallo scenario costituzionale, facendo così svanire la temporanea “rottura della Costituzione”. Grillo, però, non può non sapere che questa ipotesi non si ripeterà, salvo una vittoria che, al momento, sembra andare al di là di ogni realistica previsione e che porti il Movimento 5 Stelle a diventare, da solo, partito di maggioranza assoluta in Parlamento.”

Poiché, come ben sappiamo, le previsioni del prof. Becchi si sono purtroppo avverate, il M5S non ha i numeri per far approvare una legge costituzionale che permetta di istituire un referendum di questo genere sull’Euro. Oltre tutto, tale referendum sarebbe – come scrive lo stesso Grillo – puramente consultivo, privo di effetti vincolanti, cioè sostanzialmente inutile.

A nostro parere, tuttavia, il problema principale non è nemmeno quello della natura velleitaria dell’iniziativa, bensì quello della sua assoluta NON AUSPICABILITA'.

In effetti, annunciare pubblicamente ai mercati, alle banche e alla grande speculazione la nostra intenzione di uscire dalla moneta unica porterebbe, in assenza di difese adeguate e limitazioni alla circolazione dei capitali, a gravi problemi di fuga dei residui capitali e vendite massicce di titoli di Stato italiani prezzati in euro (per tema della loro svalutazione, che viene data dal 20% al 30%), con conseguenze potenzialmente pericolosissime per la nostra economia. Ne sono convinti tutti i più insigni commentatori, che infatti raccomandano segretezza assoluta e uscita a borse chiuse e per apposito decreto governativo.

Citiamo l’esempio di Roger Bootle, vincitore del “Wolfson Economics Prize[7], concorso indetto fra 425 economisti per la miglior strategia d’uscita dall’Eurozona, con il suo paper “Leaving the euro: A practical guide”[8]:

  • The early stages of planning for a euro exit should be conducted in secret, although it will be difficult to maintain the secrecy for long.
  • Capital controls and similar measures will need to be implemented fairly early in the preparation stage in order to limit the disruption likely to be caused by the disclosure of the exit plans.
  • Once such measures are in place, exit plans should be implemented swiftly.”[9]

 

Preparativi SEGRETI, pericolo di fuga informativa ALTO e DISTRUTTIVO, uscita VELOCE. Lo stesso Bootle comunque consiglia, come il nostro gruppo, di eseguire la manovra in collaborazione se possibile con gli altri governi europei, per mantenere rapporti amichevoli.

C’è poi un grave problema di disinformazione della cittadinanza sull’argomento. Infatti un popolo come quello italiano, sottoposto dai primi anni ‘70 ad un condizionamento mediatico che lo obbliga ad ascoltare sempre e solo la stessa campana (oppure a distrarsi con i casi giudiziari di Berlusconi, in modo da lasciar agire indisturbati i veri registi della cosiddetta “crisi” europea), non dispone neppure delle informazioni minime per poter comprendere che cos'è l'euro e quali sono i suoi effetti sull'economia reale. Anzi, esso subisce quotidianamente il terrorismo dei giornalisti a proposito degli effetti devastanti di un’uscita dalla moneta unica e viene sistematicamente convertito, soprattutto dai politici della cosiddetta “sinistra” e dai media da essi controllati, a quella che Alberto Bagnai[10] definisce "la mistica del 'ce lo chiede l'Europa'": una nuova religione che, come tutte le religioni, si esercita in paralogismi che appaiano persuasivi per la ragione, ma che sono in realtà totalmente destituiti di fondamento razionale. Come osserva il prof. Bagnai, la macchina infernale del condizionamento mediatico sta precludendo "la riflessione sugli scopi stessi dell'organizzazione politica umana, sul ruolo delle Costituzioni, sul senso dell'economia sovrastata ormai dalla finanza." [11]

Come si può dunque immaginare che una massa eterodiretta e disinformata, e che oltretutto si ritiene mediamente colpevole della crisi corrente dopo il reiterato bombardamento mediatico su corruzione, evasione fiscale e malcostume diffuso, possa deliberare in modo assennato su una materia così complessa, che implica fra l'altro conoscenze economiche di livello medio-alto?

Come si può anche solo ipotizzare di consegnare una decisione di tale importanza per la vita di tutti a chi, seppur non per colpa sua, "non sa"?

Per tutte queste ragioni riteniamo che chiedere un referendum sull'euro sia un atto pericoloso oltre che inutile, per quanto meritevole in linea di principio. Atto dal quale prendiamo risolutamente le distanze.

 


 

[1] Non illudiamoci: i soldi per salvare il sistema bancario privato li tireranno fuori dalle nostre tasche, in un modo o nell'altro. Tanto vale pretendere, almeno, che in cambio di quei soldi lo Stato ne acquisisca il controllo.

 

[9] “Le prime fasi di pianificazione per una uscita dall’euro dovrebbero essere condotte in segreto, anche se sarà difficile mantenere il segreto a lungo. I controlli sui capitali e misure analoghe dovranno essere attuati abbastanza presto nella fase di preparazione, al fine di limitare i disagi che potrebbero essere causati dalla divulgazione dei piani di uscita. Una volta che tali misure sono in atto, i piani di uscita dovrebbero essere attuati rapidamente."