Ecco il problema: la prima produce una conversione,
quindi una svalutazione, dei crediti. Per i creditori
questo naturalmente è un danno. A fronte
del quale – afferma Bagnai - c’è un vantaggio
per i debitori, il che è giusto in quanto altrimenti
“il peso dell’aggiustamento sarebbe definitivamente
addossato all’incauto debitore, senza che l’incauto
creditore (che dal gioco ha tratto i maggiori profitti)
debba metterci del suo”. Ma è davvero così?
L’Italia
ha una posizione finanziaria netta sull’estero pari
a circa il 25% del suo PIL, quindi approssimativamente
400 miliardi di euro su un PIL di 1.550.
Il
debito pubblico ha invece superato i 2.000 miliardi,
circa il 130% del PIL, di cui 800 circa detenuti
da residenti esteri e 1.200 da residenti italiani.
Immaginiamo
che si metta in atto la proposta espressa dal “Manifesto
di solidarietà europea” di cui Bagnai
è uno dei firmatari, ovvero “la segmentazione
controllata dell’Eurozona mediante fuoriuscita, su basi
condivise, dei paesi più competitivi”: in pratica
si tratta dell’uscita dei paesi dell’ex area marco,
cioè Germania, Benelux, Austria, Finlandia,
più forse (ma non è certo) la Francia.
Questi
paesi potrebbero adottare un “euro nord” che si rivaluterebbe
del 20% rispetto all’”euro sud”, o “euro residuo”.
Il
20% ovviamente è una stima, perché le
due valute fluttuerebbero e troverebbero sul mercato
il loro equilibrio. Il dato comunque è plausibile
perché corrisponde alle differenze di competitività
(costo di lavoro per unità di prodotto) che si
sono create tra Nord e Sud Europa (e in particolare
tra Germania e Italia) dalla creazione della moneta
unica europea ad oggi.
I
paesi meridionali dell’(ex) Eurozona a questo punto,
liberi (si suppone) dai vincoli degli attuali trattati,
adottano politiche fiscali di piena occupazione e, grazie
anche al beneficio della svalutazione, recuperano il
loro livello di PIL potenziale.
Trovate
qui
una stima del recupero per l’Italia: 300 miliardi
di euro, che significa passare da 1.550 a 1.850
(semplifico ipotizzando che questo aggiustamento possa
essere istantaneo mentre richiederebbe invece alcuni
anni, ma non cambia la sostanza del ragionamento).
Nell’eventualità
“strumenti monetari paralleli”, ad esempio mediante
il progetto CCF, il recupero di PIL è esattamente
identico.
Che
cosa succede al debito estero detenuto da residenti
esteri? Dal punto di vista italiano, in sostanza, nulla.
Rimane ai livelli attuali, 800 miliardi, in entrambi
i casi.
La
situazione è ben diversa se la vediamo dal punto
di vista dei creditori esteri. Questi subirebbero,
nell’eventualità di fuoriuscita dei paesi creditori,
una perdita di valore del 20%, cioè di
160 miliardi. C’è un danno per il creditore
senza che il debitore ne abbia un beneficio.
Può
sembrare un paradosso, ma è quanto succede a
seguito di qualsiasi riallineamento valutario. Nel 1992,
i titolari esteri di debito italiano denominato in lire
subirono un danno (perché ragionavano nella loro
moneta, che si era rivalutata). Per i residenti italiani,
il debito in lire rimase invece invariato.
Il
vantaggio di un riallineamento valutario, per il paese
che svaluta, non è di ridurre il valore del proprio
debito, ma di recuperare PIL, competitività e
solvibilità. Nell’ipotesi “rivoluzionaria”, creiamo
un danno al creditore senza, in realtà, dare
un corrispondente beneficio al debitore. Nell’ipotesi
“riformista”, questo problema non esiste.
Per
quanto riguarda il debito estero complessivo (pubblico
più privato) la situazione è più
complicata. I 400 miliardi di posizione finanziaria
netta italiana (passiva) sono in realtà il saldo
tra circa 1.500 miliardi di attivi e 1.900 miliardi
di passivi (800 sono la quota di debito pubblico detenuta
da investitori esteri, di cui parlavo sopra. 1.100 sono
i debiti privati).
Attivi
e passivi sono tra l’altro distribuiti in maniera variegata,
non tutti verso paesi dell’Eurozona, e non tutti verso
il nord Europa.
Ma
a parte questo, se gli attivi italiani diventassero
“euro nord” rivalutati del 20%, e i passivi italiani
“euro sud” svalutati del 20%, che situazione nascerebbe
?
- I
creditori esteri avrebbero un danno del 20%
di 1.900, cioè 380.
- I
residenti italiani avrebbero effettivamente
un beneficio, ma non dovuto alla svalutazione
del debito (che dal loro punto di vista rimane
nella stessa valuta e dello stesso importo):
l’avrebbero sulla rivalutazione degli attivi:
20% di 1.500, cioè 300.
Bene,
si dirà. Ma tutto questo è equo e accettabile
(per i Nord Europei ?).
Bagnai
sembra ipotizzare che sia corretto far subire ai creditori
una perdita pari all’entità della svalutazione
(20% nell’ipotesi) moltiplicata per la posizione passiva
dell’Italia sull’estero. Ma l'entità di questa
perdita equivale al 20% di 400, quindi a 80, non
a 300!
Inoltre,
creditori e debitori esteri ovviamente sono soggetti
differenti, alcuni dei quali in posizione attiva, altri
passiva. Ci sarebbero quindi notevoli effetti redistributivi.
Questo,
si dirà, avviene a seguito di ogni riallineamento
valutario. Ma nel 1992, il fornitore tedesco di un’azienda
italiana sapeva se aveva concluso un contratto in marchi
o in lire, e (quindi) se si era assunto o meno un rischio
di cambio. Di conseguenza poteva aver deciso, o meno,
di stipulare assicurazioni, coperture eccetera.
Con
l’ipotesi del “Manifesto di solidarietà” che
cosa va a dire il governo tedesco al fornitore di un’azienda
italiana? Che verrà pagato in moneta svalutata
del 20%? Mentre il fornitore italiano di un’azienda
tedesca beneficia di una rivalutazione del 20%?
Il
tutto per permettere all’Italia di ottenere un beneficio
non del 20% di 400, cioè di 80, ma di 300?
Inoltre,
i 300 di vantaggio NON vanno allo stato italiano, o
alla collettività dei residenti italiani. Vanno
alla minoranza che detiene investimenti o crediti all’estero.
Tutto
questo mi pare:
- molto
discutibile, sul piano dell’equità;
- molto
complicato, sul piano organizzativo;
- totalmente
inaccettabile per gli euro-settentrionali, sul
piano politico.
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