L' "EXIT STRATEGY" PROPOSTA DA AfD E CONDIVISA DA MARCO CATTANEO

A sorpresa, l'economista Marco Cattaneo ha dichiarato in un suo post del 7 settembre 2013 [1] di condividere l'"exit strategy" proposta da Bernd Lucke, il leader del partito tedesco anti-euro Alternative für Deutschland (AfD), contestando la presa di posizione di Alberto Bagnai [2], che ritiene tale proposta estremamente svantaggiosa per l'Italia in quanto prevede che il debito con l'estero venga ripagato in euro e non tiene alcun conto della Lex monetae.

 

Bernd Lucke
leader di AfD

Marco Cattaneo

 

E' importante comprendere le motivazioni che hanno indotto Cattaneo a confutare Bagnai: a suo parere, infatti, l'uscita dall'euro con ridenominazione del debito estero in lire apporterebbe ai nostri partner commerciali enormi svantaggi senza comportare per l'Italia analoghi vantaggi; si tratterebbe quindi di una soluzione non solo iniqua, ma anche insensata, che avrebbe il solo effetto di generare una contrapposizione frontale tra l'Italia e la Germania (e non solo), peggiorando la situazione internazionale, che potrebbe invece essere tenuta sotto controllo con adeguate misure economiche.
Sintetizziamo di seguito  il suo post
per analizzare più a fondo il suo punto di vista.

 

LA VIA RIVOLUZIONARIA E QUELLA RIFORMISTA

Alberto Bagnai ha dedicato un articolo [2], pochi giorni fa, ad Alternative für Deutschland (AfD), il partito euroscettico che tra due settimane si presenterà, per la prima volta, alle elezioni politiche tedesche.

Ne avevo già parlato qui. AfD propone una riforma del sistema monetario europeo basata sul principio che “siano i paesi del Sud Europa ad uscire dall’euro e che l’euro venga mantenuto solo nei paesi del centro”.

AfD non ha elaborato la sua proposta in dettaglio, ma ne ha chiarito alcuni principi, tra cui “l’introduzione nel periodo di transizione di valute parallele” in modo che sia preservato il valore dei crediti verso il Sud.

Bagnai ha espresso un parere negativo sull’ipotesi di AfD in quanto presuppone il “mantenimento in valuta forte (euro) dei... debiti esteri”. Secondo Bagnai, “una proposta opportunistica e scaltra: i paesi del Sud infatti rimarrebbero schiavi dei mercati, perché i loro debiti resterebbero definiti in una valuta della quale non avrebbero il controllo (l’euro). Tuttavia, la svalutazione della propria moneta consentirebbe loro di procurarsi (via rilancio dell’export) gli euro con i quali rimborsare il paese egemone”.

Un’analisi più approfondita porta, a mio parere, a conclusioni differenti.

L’ipotesi AfD è omogenea al progetto Certificati di Credito Fiscale, che anch’esso prevede l’introduzione di strumenti monetari paralleli (paese per paese) tramite i quali sarà possibile effettuare due azioni di politica economica:

  1. PRIMO, finanziare azioni di sostegno della domanda della dimensione necessaria al ripristino della piena occupazione.
  2. SECONDO, ridurre la fiscalità che grava sui costi da lavoro, in modo da riallineare la competitività delle aziende italiane ai livelli tedeschi.


Il problema, dice Bagnai, è che in tal modo si rimane schiavi del mercato in quanto indebitati in una moneta della quale non si detiene il controllo.

Ma ci sono le condizioni per cui questo sia un fenomeno transitorio. Questo perché:

  • Attuando il progetto CCF, l’Italia recupera la piena occupazione, mantiene in equilibrio la sua bilancia commerciale e abbassa il rapporto debito pubblico PIL: il debito diventa sostenibile senza particolari problemi.
  • Attuata l’introduzione dello strumento monetario parallelo, sarà poi possibile – via via che il debito attuale giunge a scadenza – rifinanziarlo (emetterne cioè di nuovo in sostituzione, nella misura necessaria) con debito denominato nel nuovo strumento monetario nazionale.
  • E’ anche plausibile che gradualmente, nell’arco di pochi anni, l’euro venga progressivamente rimpiazzato dal nuovo strumento monetario nazionale (i CCF nel mio progetto) nel senso che i nuovi contratti di lavoro, affitto, servizio, fornitura verranno sempre più spesso stipulati in moneta nazionale e non più in euro. L’euro tornerà quindi a essere quello che era in passato l’ecu: un’unità di conto utilizzata a fini statistici e per qualche operazione finanziaria.


In pratica le due strade si differenziano nel senso che:

  • una è “rivoluzionaria” – il break-up dell'euro avviene istantaneamente;
  • la seconda è una strada riformista: l’Italia acquisisce IMMEDIATAMENTE la possibilità di ripristinare la piena occupazione e di riallineare la sua competitività nei confronti della Germania. Ma la cessazione dell’utilizzo dell’euro, sostituito da moneta nazionale, si completa nel giro di qualche anno. Invece di una rottura secca, abbiamo un affiancamento e sostituzione.
     

DOVE STA IL PROBLEMA?

Ecco il problema: la prima produce una conversione, quindi una svalutazione, dei crediti. Per i creditori questo naturalmente è un danno. A fronte del quale – afferma Bagnai - c’è un vantaggio per i debitori, il che è giusto in quanto altrimenti “il peso dell’aggiustamento sarebbe definitivamente addossato all’incauto debitore, senza che l’incauto creditore (che dal gioco ha tratto i maggiori profitti) debba metterci del suo”. Ma è davvero così?

L’Italia ha una posizione finanziaria netta sull’estero pari a circa il 25% del suo PIL, quindi approssimativamente 400 miliardi di euro su un PIL di 1.550.

Il debito pubblico ha invece superato i 2.000 miliardi, circa il 130% del PIL, di cui 800 circa detenuti da residenti esteri e 1.200 da residenti italiani.

Immaginiamo che si metta in atto la proposta espressa dal “Manifesto di solidarietà europea” di cui Bagnai è uno dei firmatari, ovvero “la segmentazione controllata dell’Eurozona mediante fuoriuscita, su basi condivise, dei paesi più competitivi”: in pratica si tratta dell’uscita dei paesi dell’ex area marco, cioè Germania, Benelux, Austria, Finlandia, più forse (ma non è certo) la Francia.

Questi paesi potrebbero adottare un “euro nord” che si rivaluterebbe del 20% rispetto all’”euro sud”, o “euro residuo”.

Il 20% ovviamente è una stima, perché le due valute fluttuerebbero e troverebbero sul mercato il loro equilibrio. Il dato comunque è plausibile perché corrisponde alle differenze di competitività (costo di lavoro per unità di prodotto) che si sono create tra Nord e Sud Europa (e in particolare tra Germania e Italia) dalla creazione della moneta unica europea ad oggi.

I paesi meridionali dell’(ex) Eurozona a questo punto, liberi (si suppone) dai vincoli degli attuali trattati, adottano politiche fiscali di piena occupazione e, grazie anche al beneficio della svalutazione, recuperano il loro livello di PIL potenziale.

Trovate qui una stima del recupero per l’Italia: 300 miliardi di euro, che significa passare da 1.550 a 1.850 (semplifico ipotizzando che questo aggiustamento possa essere istantaneo mentre richiederebbe invece alcuni anni, ma non cambia la sostanza del ragionamento).

Nell’eventualità “strumenti monetari paralleli”, ad esempio mediante il progetto CCF, il recupero di PIL è esattamente identico.

Che cosa succede al debito estero detenuto da residenti esteri? Dal punto di vista italiano, in sostanza, nulla. Rimane ai livelli attuali, 800 miliardi, in entrambi i casi.

La situazione è ben diversa se la vediamo dal punto di vista dei creditori esteri. Questi subirebbero, nell’eventualità di fuoriuscita dei paesi creditori, una perdita di valore del 20%, cioè di 160 miliardi. C’è un danno per il creditore senza che il debitore ne abbia un beneficio.

Può sembrare un paradosso, ma è quanto succede a seguito di qualsiasi riallineamento valutario. Nel 1992, i titolari esteri di debito italiano denominato in lire subirono un danno (perché ragionavano nella loro moneta, che si era rivalutata). Per i residenti italiani, il debito in lire rimase invece invariato.

Il vantaggio di un riallineamento valutario, per il paese che svaluta, non è di ridurre il valore del proprio debito, ma di recuperare PIL, competitività e solvibilità. Nell’ipotesi “rivoluzionaria”, creiamo un danno al creditore senza, in realtà, dare un corrispondente beneficio al debitore. Nell’ipotesi “riformista”, questo problema non esiste.

Per quanto riguarda il debito estero complessivo (pubblico più privato) la situazione è più complicata. I 400 miliardi di posizione finanziaria netta italiana (passiva) sono in realtà il saldo tra circa 1.500 miliardi di attivi e 1.900 miliardi di passivi (800 sono la quota di debito pubblico detenuta da investitori esteri, di cui parlavo sopra. 1.100 sono i debiti privati).

Attivi e passivi sono tra l’altro distribuiti in maniera variegata, non tutti verso paesi dell’Eurozona, e non tutti verso il nord Europa.

Ma a parte questo, se gli attivi italiani diventassero “euro nord” rivalutati del 20%, e i passivi italiani “euro sud” svalutati del 20%, che situazione nascerebbe ?

  • I creditori esteri avrebbero un danno del 20% di 1.900, cioè 380.
  • I residenti italiani avrebbero effettivamente un beneficio, ma non dovuto alla svalutazione del debito (che dal loro punto di vista rimane nella stessa valuta e dello stesso importo): l’avrebbero sulla rivalutazione degli attivi: 20% di 1.500, cioè 300.


Bene, si dirà. Ma tutto questo è equo e accettabile (per i Nord Europei ?).

Bagnai sembra ipotizzare che sia corretto far subire ai creditori una perdita pari all’entità della svalutazione (20% nell’ipotesi) moltiplicata per la posizione passiva dell’Italia sull’estero. Ma l'entità di questa perdita equivale al 20% di 400, quindi a 80, non a 300!

Inoltre, creditori e debitori esteri ovviamente sono soggetti differenti, alcuni dei quali in posizione attiva, altri passiva. Ci sarebbero quindi notevoli effetti redistributivi.

Questo, si dirà, avviene a seguito di ogni riallineamento valutario. Ma nel 1992, il fornitore tedesco di un’azienda italiana sapeva se aveva concluso un contratto in marchi o in lire, e (quindi) se si era assunto o meno un rischio di cambio. Di conseguenza poteva aver deciso, o meno, di stipulare assicurazioni, coperture eccetera.

Con l’ipotesi del “Manifesto di solidarietà” che cosa va a dire il governo tedesco al fornitore di un’azienda italiana? Che verrà pagato in moneta svalutata del 20%? Mentre il fornitore italiano di un’azienda tedesca beneficia di una rivalutazione del 20%?

Il tutto per permettere all’Italia di ottenere un beneficio non del 20% di 400, cioè di 80, ma di 300?

Inoltre, i 300 di vantaggio NON vanno allo stato italiano, o alla collettività dei residenti italiani. Vanno alla minoranza che detiene investimenti o crediti all’estero.

Tutto questo mi pare:

  • molto discutibile, sul piano dell’equità;
  • molto complicato, sul piano organizzativo;
  • totalmente inaccettabile per gli euro-settentrionali, sul piano politico.
     

CONCLUSIONI

Non nascondiamoci dietro a un dito, sembra dire alla fine Cattaneo: se riteniamo che neanche la via “riformista”, l’introduzione di strumenti monetari paralleli (CCF o varianti sul tema) sarà accettata dalla Germania e dall’Unione Europea, allora rimane effettivamente solo la "rivoluzione". Ma allora parliamo di euroexit unilaterale dell’Italia: non di “segmentazione controllata su basi condivise…”

Capisco che oggi una proposta di provenienza tedesca possa far scattare una reazione istintiva tipo “timeo Danaos et dona ferentes”. Ma non mi pare l’atteggiamento corretto nei confronti di quanto ipotizza AfD.

Naturalmente, è necessario che venga posta come condizione che gli attuali trattati europei vengano modificati o interpretati in modo da consentire di:

  1. UNO, introdurre gli strumenti monetari paralleli in dimensione adeguata a sviluppare politiche di piena occupazione e a riequilibrare la competitività tra Nord e Sud Europa (come qui descritto);
  2. DUE, rifinanziare in tempi rapidi il debito pubblico, mediante strumenti monetari nazionali;
  3. TRE, sostituire gradualmente, ma alla fine pressoché totalmente, lo strumento monetario nazionale all’euro.

  


 

[1] http://bastaconleurocrisi.blogspot.it/2013/09/bagnai-e-afd-problema-euro-la-soluzione.html

[2] Cfr. Alberto Bagnai, http://goofynomics.blogspot.it/2013/09/la-tina-italiana-e-lalternativa-tedesca.html