I DANNI DEL CAMBIO FISSO E DELL'AUSTERITA'

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1. Le regole dell'Unione Monetaria Europea

Prendere in considerazione la realtà economica legata all’adozione dell'euro è assolutamente insufficiente se non si esamina la "filosofia" che lo sottende, legata ai parametri di Maastricht, resi sempre più stringenti dal “patto di stabilità” nella sua recente versione del Fiscal Compact [1].

E’ bene sapere anzitutto che nessuna evidenza scientifica sostiene l'utilità e la funzionalità di quei parametri: un tetto al 3% al deficit di bilancio annuo, ora ridotto addirittura allo 0,50% dal Fiscal Compact; un tetto al 60% nello stock del debito pubblico in rapporto al PIL. E’ noto al mondo intero che tali parametri altro non sono che il valore che aveva l’asse Franco-Tedesco con un buon margine di tolleranza (circa il 40% debito/pil), che faceva ragionevomente supporre di aver fissato valori sufficientemente larghi da poterci stare dentro comodamente. E’ altresì noto (e di dominio pubblico) il grossolano errore commesso nel famoso studio di Reinhard-Rogoff [2] che fissa al 90% del PIL il limite oltre cui l’indebitamento, a loro detta, diventa un ostacolo concreto per la crescita. Tale studio tra l’altro non ha mai dimostrato la relazione di causalità fra i due eventi.

Ciononostante, personaggi discutibili come il vicepresidente della Commissione Europea Olli Rehn hanno esibito in tempi non sospetti tale studio come indiscutibile base scientifica per le politiche di austerità. Ora sappiamo bene, e lo stesso premio Nobel per l’economia Paul Krugman ce lo ricorda, che non solo non esiste rapporto di causalità (e se esiste è causalità inversa, ovvero è semmai un lungo periodo di crescita scarsa o assente a favorire l’esplosione del debito pubblico), ma che tali limiti non hanno alcun senso economico.

Al contrario, l'evidenza empirica riscontrabile soprattutto nell'andamento delle economie dei Paesi periferici quali Irlanda, Portogallo, Spagna, ed anche nella stessa Grecia, dimostra che il tentativo di forzare il raggiungimento degli obiettivi, rendendoli più stringenti, conduce a risultati opposti. Nei Paesi citati le politiche di austerità, imposte dall'Unione Europea attraverso l'influenza della BCE, della Commissione e del FMI, hanno fatto letteralmente esplodere il rapporto debito/PIL nel giro di pochi anni, trasformando alcuni di essi da Paesi "più virtuosi" della Germania, in Paesi disastrati e bisognosi di aiuti internazionali; senza considerare il costo sociale enorme che ricade su intere popolazioni in conseguenza delle politiche di aggiustamento, che da solo dovrebbe bastare ad evidenziare l'assoluta vergogna, insostenibilità e follia della scelta.

L'altro aspetto saliente delle scelte istituzionali infelici che fanno da cornice alla moneta unica, è da riscontrare nel principio del divieto di aiuti di Stato alle imprese, che stride con le politiche di massima apertura ai movimenti dei capitali e delle merci non solo all'interno dell'Unione, ma nei confronti del resto del mondo globalizzato. Questo, pur sapendo che le imprese esportatrici in importanti aree produttive del mondo con le quali si accetta la competizione selvaggia godono di immenso sostegno pubblico, diretto o indiretto; come, d'altronde, è normale attendersi da uno Stato che sia consapevole dell'importanza di una propria "politica industriale". Tali aiuti di Stato non vengono invece lesinati, lo ricordiamo, nel caso del sostegno all’attività bancaria. E’ clamoroso il recente caso del salvataggio di MPS.

Il contrasto è talmente evidente che Paesi più smaliziati e influenti del nostro (ad es. Germania e Francia) hanno trovato il modo di aggirare il divieto [3] e di sostenere in vari modi le esportazioni del proprio sistema produttivo. In questo modo, però, scaricano sui partner dell'Unione il peso degli aggiustamenti conseguenti.

Le regole stesse dell’UME, quindi, spingono ad evitare la collaborazione per privilegiare la competizione interna, competizione che è tra l’altro falsata da vari fattori che andremo ad esaminare. Fattori che stanno provocando la disgregazione stessa dell’idea di Europa unita.
A questo proposito ricordiamo la posizione di un economista non certo noto per il suo impegno sociale e per la difesa dei deboli:

«La spinta per l’Euro è stata motivata dalla politica, non dall’economia. Lo scopo è stato quello di unire la Germania e la Francia così strettamente da rendere una possibile guerra europea impossibile, e di allestire il palco per i federali Stati Uniti d’Europa. Io credo che l’adozione dell’Euro avrà l’effetto opposto. Esacerberà le tensioni politiche convertendo shock divergenti che si sarebbero potuti prontamente contenere con aggiustamenti del tasso di cambio in problemi politici di divisioni. Un’unità politica può aprire la strada per un’unità monetaria. Un’unità monetaria imposta sotto condizioni sfavorevoli si dimostrerà una barriera per il raggiungimento dell’unità politica.» (Milton Friedman - Nobel 1976 per l’Economia) [4].

L’economista contemporaneo Paul de Grauwe, per certi versi assai più vicino alle nostre posizioni, è ancora più drastico sulla follia dell’intera procedura seguita [5]:

“Dal 1970, gli economisti hanno avvertito che un'unione monetaria non poteva essere sostenuta senza una unione fiscale. Ma i leader della zona euro non hanno ascoltato i loro consigli - e le conseguenze stanno diventando sempre più evidenti. Ora l'Europa deve affrontare una scelta difficile: o risolvere questo fondamentale difetto di progettazione e di muoversi verso l'unione fiscale, o abbandonare la moneta comune.”
 

2. I danni del cambio fisso

Le ricadute negative per la nostra economia dell’adozione del cambio fisso e della conseguente rinuncia ad uno strumento come la svalutazione monetaria sono ben chiarite da Alberto Bagnai nel suo libro “Il Tramonto dell’Euro” (Imprimatur ed.).

"Adottando un cambio fisso - egli spiega - un Paese si priva di un normale meccanismo di risposta a shock negativi provenienti dall’esterno: la possibilità di aggiustare il valore della propria valuta alle mutate condizioni di mercato. Non c’è nulla di scandaloso né di immorale nel fatto che il prezzo di una valuta segua la legge della domanda e dell’offerta. Se glielo si impedisce, si crea una tensione che fatalmente si scarica sul mercato del lavoro."[6]

Per citare le parole di Vittorio Da Rold sul Sole24Ore, in caso di crisi “o si svaluta la moneta (ma nell’euro non si può più) o si svaluta il salario”. Il taglio dei salari ha l’evidente scopo di offrire prodotti al mercato estero a prezzi più contenuti (abbassando il cosiddetto “costo del lavoro”), ma è una misura, oltre che anti-etica, anche inefficace, perché al tempo stesso distrugge la domanda interna.

Le conseguenze del blocco del cambio provocato dall’adozione della moneta unica europea sono così sintetizzate dal prof. Bagnai:

  1. con il blocco del cambio, nei Paesi periferici dell'eurozona, quelli solitamente più arretrati in termini economici, la competitività peggiora, perché il cambio non può essere aggiustato alle variazioni dei prezzi. In parole semplici, agli abitanti di questi Paesi viene data una moneta troppo forte rispetto alla loro economia, e questo li incita a comprare molti beni all’estero: così le spese dei Paesi di periferia sostengono l’industria del Nord;
  2. quando il cambio è bloccato, i prestiti da un Paese a un altro non scontano il rischio di cambio (che a sua volta sconta i differenziali attesi d'inflazione, N.d.R.), e quindi il nord Europa presta ai Paesi del sud, con estrema larghezza, somme che vengono utilizzate per acquistare i beni del nord.
    I Paesi del nord traggono dunque due vantaggi: uno in termini di profitti industriali e uno in termini di profitti finanziari.
    Questo gioco si è inceppato per due ordini di motivi:
  • da una parte si supponeva che questi afflussi di capitali avrebbero contribuito a risolvere i problemi strutturali del sud, ma non è stato affatto così;
  • dall’altra, soprattutto i tedeschi disponevano di una ingente liquidità che li ha portati ad effettuare anche molti investimenti sbagliati, come i prestiti incauti fatti alla Grecia e quelli fatti agli Stati Uniti sul mercato dei subprime.

Quando dagli Usa è arrivato il colpo della crisi dei subprime e del crollo di Lehman Brothers, i tedeschi hanno cominciato a dover rientrare dei loro vari crediti. Per farlo, naturalmente, hanno fatto la voce grossa con i paesi più piccoli e si sono dimostrati umili con quelli potenti, secondo un copione ormai consolidato dalla storia.
 

3. I benefici della svalutazione

La svalutazione del cambio, al contrario, permette un recupero di competitività. "Basta confrontare - fa notare A. Bagnai - i risultati conseguiti dalla Lettonia (che ha seguito la strada della svalutazione interna, massacrando la propria economia, come ricorda Mario Seminerio, altro economista ortodosso e pro-euro), e dalla Polonia, che invece dopo il crack Lehman del settembre 2008 ha lasciato svalutare lo zloty di quasi il 30%, risultando l’unico paese dell’Unione Europea con un tasso di crescita positivo nel 2009 (+1.6%). Questo risultato è stato ottenuto senza particolari costi in termini d’inflazione, che anzi in Polonia è scesa dal 4.2% al 3.4% fra 2008 e 2009, come ricordano Kawalec e Pytlarczyk."

Se ne conclude, fra l’altro, che il terrore dell’inflazione in caso di sganciamento valutario non ha alcuna base né storica né scientifica.

 

 

 

 

4. I danni dell'austerità

Ma non finisce qui: per far fronte alla tragica situazione determinatasi con l'ingresso nell'euro e l'adozione del cambio fisso si suggerisce (anche in ambito 5 Stelle) un rimedio che è peggiore del male: tagliare la spesa pubblica: la cosiddetta "austerità" (termine che, come fa notare Alain Parguez, è desunto dal linguaggio ecclesiastico, e non a caso: si tratta di inculcare nelle menti delle persone l'idea che in fondo la crisi e le conseguenti ristrettezze "ce le siamo meritate", e quindi ora dobbiamo "espiare").

Bene: vediamo gli effetti economici dei tagli alla spesa pubblica.

I grafici sottostanti sono tratti sia dallo studio del Fondo Monetario Internazionale “The Challenge of Debt Reduction during Fiscal Consolidation” di L. Eyraud e A. Weber[7], sia dal IMF DATA MAPPER.

Da essi risulta evidente il rischio di mancato riassorbimento delle economie sviluppate di tutte le manovre tagli e tasse, con probabile stagnazione o addirittura recessione anche negli anni successivi: con buona pace della tanto decantata “austerità espansiva”.

In caso di tagli o tasse si hanno due effetti:

  • Effetto diretto: una manovra di tagli e tasse di un punto percentuale genera una riduzione del rapporto debito/pil di pari importo:

               

  • Effetto mitigante (unpleasant fiscal arithmetic): la stessa manovra ha però indesiderati effetti mitiganti di importo superiore (circa 1,3 sul denominatore e circa 0,2 sul numeratore):
     

 

Ovviamente gli effetti si notano già ad una prima fase di previsione (vedi grafico da IMF Data Mapper) e, purtroppo, si vedranno per molti anni a venire o addirittura permanentemente, dato che, qualora le manovre di tagli e tasse diventassero strutturali, l’effetto complessivo non sarà mai più recuperato. Un noto esempio sono le nostre accise sui carburanti.
 

 

Fonte: World Economic Outlook (aprile 2013).

 

Dopo qualche anno, le nazioni ad alto moltiplicatore dovrebbero recuperare i valori perduti, ma solo se la stretta fiscale avviene il primo anno e mai più: 

 

Qualora invece le operazioni di tagli e tasse dovessero essere continue e ripetitive, anno dopo anno, il rischio che corrono le economie avanzate è che il rapporto debito/pil, causa moltiplicatore fiscale, potrebbe non calare più, anzi potrebbe esplodere come dimostra l’ultimo grafico del FMI: