Paola
Santucci,
nel
suo Poussin:
tradizione
ermetica
e
classicismo
gesuita
(Cooperativa
Editrice
10/17,
Salerno,
1985,
p.
23),
scrive,
a
proposito
di
alcuni
importanti
personaggi
(quasi
tutti
gesuiti)
della
cerchia
di
Poussin:
"Costoro
si
erano
resi
divulgatori
di
quella
particolare
tradizione,
già
accolta
e
tramandata
da
Marsilio
Ficino
e
dai
dotti
umanisti
della
fine
del
'400,
che
faceva
capo
allo
studio
degli
Hermetica,
cioè
di
quei
testi
attribuiti
al
mitico
filosofo
egiziano
Ermete
Trismegisto
e
che
venivano
considerati
espressione
della
prisca
theologia,
di
una
conoscenza
divina
più
antica
dello
stesso
Mosè".
E
aggiunge
(p.
32):
"Poussin
dunque
aderì
alla
teosofia
ermetica
e
di
questa
egli
colse
soprattutto
l'aspetto
relativo
all'identità
di
tutti
gli
dei
in
un'unica
divinità.
Era
la
stessa
tesi
propugnata
dai
gesuiti
contemporanei
per
i
quali
la
diffusione
del
sincretismo
in
chiave
cristiana
fu
compito
primario
poiché
il
momento
storico
richiedeva
uno
strumento
valido
per
la
evangelizzazione
dei
popoli
extra-auropei.
Fu
forse
su
questa
base
di
affinità
ideologica
ed
intellettuale
che
Poussin
strinse
i
suoi
rapporti
con
i
rappresentanti
della
Società".
Baldini,
pur
convinto
della
stessa
cosa,
non
crede
che
l'iniziazione
di
Poussin
all'ermetismo
risalga
ai
suoi
contatti
con
l'ambiente
gesuita,
quanto
piuttosto
al
suo
incontro
giovanile
e
parigino
con
uno
dei
massimi
poeti
dell'epoca,
ossia
il
cavalier
Giambattista
Marino.
Ma
questo
poco
conta
ai
fini
del
nostro
discorso.
Charles Errard,
Ritratto
di
Nicolas
Poussin,1672
Ora,
pur
considerando
convincenti
le
premesse,
e
pur
ammettendo
con
Baldini
che
"il
Seicento
è
il
secolo
di
maggior
fulgore
dell'alchimia
tradizionale,
quello
che
vedrà
esplodere
il
fenomeno
dei
Rosacroce,
del
cui
bagaglio
culturale
questa
disciplina
faceva
necessariamente
parte",
ci
sembra
per
lo
meno
azzardato
concludere
che
"esso
allegorizza
i
medesimi
aspetti
dell'operatività
alchemica"
già
evidenziati
nel
dipinto
del
Guercino.
Ecco
la
conclusione
di
Baldini:
"in
questo
caso
i
personaggi
del
dipinto
-
tranne
Alfeo
che
gioca
un
ruolo
a
sé,
come
dimostra
anche
la
sua
posizione
appartata
-
impersonano
proprio
gli
elementi:
l'abito
bianco
di
Ermione
ne
fa
una
rappresentazione
dell'aria,
come
quello
blu
di
Pilade
e
quello
arancione
di
Tisameno
ci
rinviano
rispettivamente
all'acqua
e
al
fuoco.
La
terra,
cioè
Oreste,
giace
nel
sepolcro:
Poussin
esprime
dunque
in
altri
termini
la
stessa
fase
operativa
che
era
oggetto
del
precedente
quadro
del
Guercino.
Infatti,
seguendo
la
diversa
terminologia
simbolica
adottata
da
Poussin,
si
può
dire
che
l'esito
della
Prima
Opera
[o
Nigredo,
N.d.R.]
consiste
nel
fatto
che
l'aria
si
unisce
all'acqua,
mentre
il
fuoco
alla
terra."
La
conclusione,
ripetiamo,
non
ci
convince;
né
ci
convincono
le
deduzioni
di
Baldini
a
proposito
del
fatto
che
il dito
del
personaggio
indica
senza
possibilità
di
equivoco
la
lettera
D:
questo
gesto
sarebbe
secondo
lui
un'ulteriore
conferma
del
fatto
che
Poussin
conosceva
alla
perfezione
i
princìpi
e
la
tecnica
operativa
dell'alchimia,
in
quanto
la
lettera
latina
D
era
considerata
strettamente
equivalente
alla
greca
D
(delta)
nonché
all'ebraica
d
(daleth),
e la
daleth
era
collegata
kabbalisticamente
tanto
con
il
numero
4
quanto
con
il
pianeta
Giove,
dal
momento che il numero
4 aveva la medesima forma del simbolo astrologico di Giove:
La
sfera
di
Giove
sarebbe
l'aria,
allora
considerata
piena
degli
influssi
del
sole,
della
luna
e
degli
astri,
la
cui
azione
si
riteneva
necessaria
per
recuperare
il
"fuoco
salino"
dal
caput
mortuum.
Con
tutto
il
rispetto
per
le
ragguardevoli
competenze di
Baldini,
ci
pare
un'ipotesi
assurda:
tutto
questo
apparato
iconografico,
tutto
questo
spreco
di
mezzi
pittorici,
semplicemente
per
far
sapere
agli
"addetti
ai
lavori"
che
Poussin
sapeva
come
si
recupera
il
"fuoco
salino"
dal
caput
mortuum?
Ci
rifiutiamo
di
crederlo.
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