POUSSIN: LES BERGERS D'ARCADIE, 1629-30

 

 

Paola Santucci, nel suo Poussin: tradizione ermetica e classicismo gesuita (Cooperativa Editrice 10/17, Salerno, 1985, p. 23), scrive, a proposito di alcuni importanti personaggi (quasi tutti gesuiti) della cerchia di Poussin: "Costoro si erano resi divulgatori di quella particolare tradizione, già accolta e tramandata da Marsilio Ficino e dai dotti umanisti della fine del '400, che faceva capo allo studio degli Hermetica, cioè di quei testi attribuiti al mitico filosofo egiziano Ermete Trismegisto e che venivano considerati espressione della prisca theologia, di una conoscenza divina più antica dello stesso Mosè".

E aggiunge (p. 32): "Poussin dunque aderì alla teosofia ermetica e di questa egli colse soprattutto l'aspetto relativo all'identità di tutti gli dei in un'unica divinità. Era la stessa tesi propugnata dai gesuiti contemporanei per i quali la diffusione del sincretismo in chiave cristiana fu compito primario poiché il momento storico richiedeva uno strumento valido per la evangelizzazione dei popoli extra-auropei. Fu forse su questa base di affinità ideologica ed intellettuale che Poussin strinse i suoi rapporti con i rappresentanti della Società".

Baldini, pur convinto della stessa cosa, non crede che l'iniziazione di Poussin all'ermetismo risalga ai suoi contatti con l'ambiente gesuita, quanto piuttosto al suo incontro giovanile e parigino con uno dei massimi poeti dell'epoca, ossia il cavalier Giambattista Marino. Ma questo poco conta ai fini del nostro discorso.

Charles Errard, Ritratto di Nicolas Poussin,1672

 

Ora, pur considerando convincenti le premesse, e pur ammettendo con Baldini che "il Seicento è il secolo di maggior fulgore dell'alchimia tradizionale, quello che vedrà esplodere il fenomeno dei Rosacroce, del cui bagaglio culturale questa disciplina faceva necessariamente parte", ci sembra per lo meno azzardato concludere che "esso allegorizza i medesimi aspetti dell'operatività alchemica" già evidenziati nel dipinto del Guercino.

Ecco la conclusione di Baldini: "in questo caso i personaggi del dipinto - tranne Alfeo che gioca un ruolo a sé, come dimostra anche la sua posizione appartata - impersonano proprio gli elementi: l'abito bianco di Ermione ne fa una rappresentazione dell'aria, come quello blu di Pilade e quello arancione di Tisameno ci rinviano rispettivamente all'acqua e al fuoco. La terra, cioè Oreste, giace nel sepolcro: Poussin esprime dunque in altri termini la stessa fase operativa che era oggetto del precedente quadro del Guercino. Infatti, seguendo la diversa terminologia simbolica adottata da Poussin, si può dire che l'esito della Prima Opera [o Nigredo, N.d.R.] consiste nel fatto che l'aria si unisce all'acqua, mentre il fuoco alla terra."

La conclusione, ripetiamo, non ci convince; né ci convincono le deduzioni di Baldini a proposito del fatto che il dito del personaggio indica senza possibilità di equivoco la lettera D: questo gesto sarebbe secondo lui un'ulteriore conferma del fatto che Poussin conosceva alla perfezione i princìpi e la tecnica operativa dell'alchimia, in quanto la lettera latina D era considerata strettamente equivalente alla greca D (delta) nonché all'ebraica d (daleth), e la daleth era collegata kabbalisticamente tanto con il numero 4 quanto con il pianeta Giove, dal momento che il numero 4 aveva la medesima forma del simbolo astrologico di Giove:

 

 

La sfera di Giove sarebbe l'aria, allora considerata piena degli influssi del sole, della luna e degli astri, la cui azione si riteneva necessaria per recuperare il "fuoco salino" dal caput mortuum.

Con tutto il rispetto per le ragguardevoli competenze di Baldini, ci pare un'ipotesi assurda: tutto questo apparato iconografico, tutto questo spreco di mezzi pittorici, semplicemente per far sapere agli "addetti ai lavori" che Poussin sapeva come si recupera il "fuoco salino" dal caput mortuum? Ci rifiutiamo di crederlo.